Da ministro degli Esteri deve confrontarsi con una situazione mondiale non proprio tranquilla, da leader di partito deve gestire le baruffe interne e una transizione complicata
L’agenda di Antonio Tajani è abbastanza frenetica anche per un ministro degli Esteri. Può capitare che lui e il suo staff, nello stesso giorno, debbano andare prima in una qualche capitale europea a ora di pranzo per discutere di crisi internazionali, e poi nel pomeriggio a Nocera Inferiore (Campania) per il congresso provinciale di Forza Italia: perché in effetti il suo è un ruolo doppio, anzi triplo. «Uno e trino», disse di lui Giorgio Mulè, suo collega in Forza Italia ma appartenente a una corrente dissidente, che non ama granché Tajani. «Vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri, segretario del partito: manco Maciste sopporterebbe tutti questi pesi».
Mulè parlò così nell’ottobre del 2022, quando cioè era appena stato formato il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni. E quel triplice ruolo Tajani continua a sopportarlo anche adesso, dopo quasi un anno e mezzo, e la situazione con il tempo non si è alleggerita, anzi.
Alle tensioni interne al partito di cui è segretario e leader, Forza Italia, in vista del congresso nazionale del 23 e 24 febbraio, si aggiungono le tensioni con gli alleati di governo, specialmente con l’altro vicepresidente del Consiglio, il leghista Matteo Salvini. Poi ci sono le incombenze legate al suo delicato ruolo di governo: due guerre, una missione militare da costruire nel mar Rosso, una da ridefinire in Libano, e le numerosissime urgenze che sempre impone stare a capo di questo ministero (i suoi collaboratori raccontano anche che il doversi dividere tra tanti impegni gli causa una gran fame nervosa). Nonostante tutto questo, comunque, Tajani ci tiene molto a tornare ogni fine settimana – a meno di crisi internazionali gravissime – a Frosinone da suo nipote, magari portandolo quando possibile allo stadio a vedere la partita della squadra di calcio locale che gioca in Serie A.
Con nonno allo Stadio Benito Stirpe di Frosinone! pic.twitter.com/MpnfmJ1AiL
— Antonio Tajani (@Antonio_Tajani) February 18, 2024
Di recente si è visto come questo sovrapporsi di impegni – quelli da nonno a parte – generi complicazioni. Quando venerdì si è diffusa la notizia della morte di Alexei Navalny, che era stato il principale oppositore contro il regime del presidente russo Vladimir Putin, Tajani era a Milano per partecipare a un convegno sulla sanità organizzato da Forza Italia. Sapeva già che di lì a poche ore avrebbe dovuto prendere un aereo per Monaco di Baviera, dove ci sarebbe stata la Conferenza sulla sicurezza e un incontro con i ministri degli Esteri del G7, la riunione informale dei grandi paesi occidentali alleati degli Stati Uniti di cui l’Italia quest’anno ha la presidenza di turno.
Di fronte ai giornalisti che tra una domanda sulla sanità lombarda e una sulle prossime alleanze europee gli chiedevano un commento sulla morte di Navalny, Tajani ha risposto così: «Non voglio e non posso dire nulla, certamente era detenuto in condizioni da non agevolare un decorso positivo dei problemi di salute che aveva. Non è morto di vecchiaia e spero sia veramente morto di morte naturale».
La linea del governo italiano, concordata da Tajani insieme alla presidente del Consiglio Meloni, era appunto di prendere tempo, di non esporsi troppo con commenti azzardati, vista la mancanza di notizie certe che arrivavano dal remotissimo carcere di massima sicurezza siberiano dov’era detenuto Navalny. «Prudenza istituzionale», avevano commentato i collaboratori di Meloni. Però lo stesso Tajani, ore dopo, ha voluto precisare meglio il suo pensiero, e infatti arrivato a Monaco, durante la conferenza stampa, ha detto che «tutti quanti siamo per condannare quanto accaduto», e che la stessa richiesta di verità non era di circostanza, perché «se pensassimo che fosse morto di freddo non chiederemmo di accertarla, il sospetto c’è che ci sia qualcosa che non è andato per il verso giusto e certamente il Cremlino [sede del governo, ndr] ha delle responsabilità».
Tra le molte grane che Tajani si trova a gestire, la questione russa è una delle maggiori e più costanti. Costretto per mesi, dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022, a un complicato equilibrismo per prendere le distanze dai moti di affetto verso Putin dell’allora leader indiscusso di Forza Italia Silvio Berlusconi, Tajani ha dovuto gestire più di recente un rapporto complicato con l’ambasciatore italiano a Mosca, Giorgio Starace, le cui iniziative sono state considerate un po’ troppo accomodanti verso il regime russo.
Quando, in più di un’occasione, le opposizioni avevano criticato Starace – nell’ottobre scorso, per esempio, a un evento organizzato nella sede dell’ambasciata italiana era stato invitato anche un giornalista che aveva dimostrato evidenti simpatie per il regime di Putin – Tajani aveva cercato sempre di ridimensionare la cosa. Al tempo stesso però, attraverso il suo viceministro Edmondo Cirielli, aveva lasciato intendere a esponenti del Partito Democratico e di Italia Viva che Starace sarebbe stato rimosso di lì a breve anche per via dei limiti d’età, e che la norma per un prolungamento dell’incarico che l’ambasciatore stava cercando di ottenere non gli sarebbe stata concessa. In effetti Starace ha lasciato l’incarico a fine 2023.
Peraltro, a proposito di Russia e Navalny, Tajani sta lavorando coi suoi consiglieri per ricevere nei prossimi giorni a Roma Yulia Navalnaya, la moglie del dissidente russo. Dopo averla già incontrata a Bruxelles il 19 febbraio scorso, Tajani vorrebbe ora riceverla in Italia per dimostrarle da un lato la vicinanza sua e del governo, e dall’altra per riscattare definitivamente la sua immagine di leader rispetto al passato di Berlusconi, considerato in Europa come il più ostinato e fedele amico di Putin.
Ma la Russia non è l’unico problema per Tajani. C’è anche il caso di Ilaria Salis, l’insegnante italiana detenuta in Ungheria. Su questo Tajani è intervenuto l’8 febbraio scorso alla Camera, rivendicando di aver fatto tutto il possibile per garantirle condizioni di detenzione meno degradanti possibile. Lo stesso giorno però alcuni suoi consiglieri, parlando coi cronisti fuori dall’aula di Montecitorio, hanno ammesso che al ministero c’era perplessità per l’atteggiamento indolente con cui l’ambasciatore a Budapest, Manuel Jacoangeli, aveva gestito la questione nei mesi precedenti.
Ma la cosa che più ha infastidito Tajani è stato forse l’incontro col padre di Ilaria Salis, Roberto, il 5 febbraio scorso negli uffici del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Quando Tajani ha spiegato che per lui non è possibile monitorare quotidianamente le condotte dei diplomatici che lavorano in decine di paesi diversi del mondo in cui sono detenuti quasi 2.500 italiani, Salis ha risposto, secondo persone che hanno partecipato all’incontro e assistito alla scena, con tono stizzito, dicendo a Tajani che lui, da manager, si prende sempre la responsabilità di quello che fanno i suoi dipendenti, e che se non si è in grado di verificare che i propri sottoposti seguano le indicazioni allora bisognerebbe prendere atto di non essere all’altezza del proprio incarico.
Tajani sperava che Roberto Salis accogliesse l’invito a non alimentare troppo il clamore mediatico, perché secondo lui trasformare il caso giudiziario in una questione politica avrebbe finito per complicare ancora di più i negoziati con il primo ministro ungherese Viktor Orbán. Ma poi ha letto dalle agenzie di stampa che Salis, appena uscito dal ministero della Giustizia, si era fermato coi giornalisti riferendo di un suo fastidio per l’esito inconcludente dell’incontro.
Due settimane prima c’era stato un altro incontro complicato per Tajani, anche se per altri motivi. Era avvenuto a Tel Aviv, in Israele, con il primo ministro Benjamin Netanyahu. Al termine di quell’incontro Tajani stesso aveva ribadito che per l’Italia la soluzione “dei due popoli, due Stati”, cioè quella per cui sia Israele sia la Palestina avrebbero diritto a creare un proprio Stato dividendosi così il territorio, resta l’«unica via per un futuro di pace e sviluppo per i popoli israeliano e palestinese». È una proposta che però il governo israeliano non ha mai davvero condiviso, e Netanyahu aveva ribadito di essere contrario proprio nei giorni precedenti.
Tajani ha poi raccontato ad alcuni parlamentari di Forza Italia la difficoltà di persuadere il primo ministro israeliano a non proseguire con i bombardamenti su Gaza, che stanno uccidendo tantissimi civili. Tajani ha confidato ai suoi colleghi di partito alcuni momenti del colloquio con Netanyahu, in particolare il fatto che in Israele la percezione degli eventi sia piuttosto diversa da quella che si ha in Europa: più che le immagini dei cittadini di Gaza allo stremo, le televisioni israeliane trasmettono le interviste dei famigliari degli ostaggi rapiti il 7 ottobre; più che i cadaveri dei bambini a Khan Yunis, i banchi vuoti dei bambini israeliani che non sono ancora tornati a scuola.
E però, pur consapevole di tutto ciò, Tajani ha detto di aver spiegato a Netanyahu che né Israele, né nessun altro vive in una “bolla”, in un vuoto pneumatico, e che dunque il governo israeliano deve tenere conto di ciò che il resto del mondo sta vedendo e di come il resto del mondo potrebbe individuare nella reazione militare di Israele la causa di una possibile escalation delle tensioni tra Occidente e mondo arabo. D’altronde Tajani, che pure cura con attenzione i rapporti con la comunità ebraica di Roma e non solo, è stato fin dal 7 ottobre uno dei ministri che hanno espresso più perplessità sulla strategia militare del governo israeliano. Da qualche settimana, Tajani è diventato senza dubbio l’interprete della linea più scettica verso Netanyahu all’interno del governo di Giorgia Meloni.
Ma oltre alla diplomazia internazionale, c’è poi quella interna, legata alla gestione di un partito, Forza Italia, che dopo la morte di Silvio Berlusconi è entrato un po’ in crisi di identità, attraversato da forti contrasti interni. Proprio questo, come dicevamo, costringe Tajani a gestire spesso un’agenda molto fitta, in cui gli impegni internazionali si intersecano freneticamente con quelli di partito.
Tajani da mesi ha avviato una profonda riorganizzazione del partito, creando nuovi incarichi dirigenziali e promuovendo perlopiù uomini di sua fiducia. Raffaele Nevi portavoce nazionale, Francesco Battistoni responsabile dell’organizzazione, Alessandro Battilocchio responsabile elettorale: tutte nomine decise nell’agosto del 2023, e che hanno dimostrato una certa tendenza accentratrice, che ha messo ai margini le voci più critiche. In questa logica si spiega anche la scelta di rimuovere dal ruolo di capogruppo al Senato Licia Ronzulli, l’esponente più influente della corrente opposta a Tajani, sostituendola con Maurizio Gasparri.
Questa lunga e complicata transizione dovrebbe trovare il suo compimento nel congresso del 23 e 24 febbraio, dove Tajani si presenta come candidato unico per succedere a sé stesso nel ruolo di segretario nazionale, certo della riconferma. Questo però non significa che manchino nel partito le liti sulle gerarchie del partito in definizione, a partire dalla scelta dei vicesegretari. Per lungo tempo a rivendicare più o meno esplicitamente questa carica è stato il presidente della Sicilia Renato Schifani: che però anche a seguito di problemi interni alla maggioranza che sostiene la sua giunta regionale ha deciso poi di chiedere altri ruoli di coordinamento.
I vicesegretari saranno ben quattro: la deputata toscana Deborah Bergamini, il deputato lombardo Stefano Benigni, coordinatore nazionale della giovanile del partito e molto vicino alla ex compagna di Berlusconi Marta Fascina, il presidente del Piemonte Alberto Cirio e quello della Calabria Roberto Occhiuto. Occhiuto è forse l’esponente che più di altri sembra poter diventare un possibile futuro antagonista di Tajani: vorrebbe ottenere un ruolo un po’ più importante di quello degli altri tre vice, magari vedendosi riconosciuta la carica di «vicesegretario vicario».
In questo quartetto non c’è rappresentanza della corrente critica. Un po’ perché i rapporti di forza al momento pendono oggettivamente verso la corrente fedele a Tajani, un po’ perché Ronzulli, e con lei Alessandro Cattaneo e Giorgio Mulè e gli altri esponenti più critici, preferiscono restare del tutto estranei a questa gestione per potere poi più agevolmente attaccarla nel primo momento possibile. Peraltro potrebbe succedere a breve, se il risultato di Forza Italia alle elezioni europee di inizio giugno dovesse essere deludente.
Proprio le elezioni di giugno saranno un momento decisivo per le ambizioni di leadership di Tajani. Un risultato al di sotto delle aspettative gli verrebbe imputato personalmente, e la sua guida verrebbe messa in discussione. Lui ha fissato un obiettivo piuttosto ambizioso: il 10 per cento. Una soglia che tuttavia Forza Italia non supera in un’elezione nazionale da sei anni, e che è almeno 2,5 punti più alta rispetto al consenso attualmente dato al partito dai sondaggi. Per riuscire nell’impresa, Tajani ha tra l’altro avviato una campagna per accogliere in Forza Italia esponenti di altri partiti che cercano nuove collocazioni.
Nei mesi passati ci sono stati ingressi non solo da partiti del centrodestra, come di recente in Liguria, ma anche dal Movimento 5 Stelle, com’è successo nel Lazio, in Abruzzo e in Sicilia: per esempio la pescarese Sara Marcozzi o il nisseno Giancarlo Cancelleri, entrambi ex esponenti del M5S che avevano usato spesso parole sprezzanti verso Forza Italia e Berlusconi.
Tra tutti, però, è stato l’ingresso di Letizia Moratti a farsi notare di più, in realtà un ritorno. L’ex sindaca di Milano aveva infatti già fatto parte del centrodestra e del partito di Berlusconi in passato, prima di candidarsi con il “Terzo Polo” di Matteo Renzi e Carlo Calenda alle ultime elezioni regionali in Lombardia del 2022. Nell’ottobre scorso Tajani ha annunciato con grande enfasi il suo ritorno, e subito ci sono stati malumori interni al partito per le presunte volontà di Moratti di essere inserita nella squadra di governo. Forte di una certa vicinanza con alcuni membri della famiglia Berlusconi, si pensava che Moratti avesse buone possibilità di sostituire Paolo Zangrillo alla Pubblica amministrazione, oppure, più di recente, di prendere il posto del ministro della Salute Orazio Schillaci. L’ipotesi però non si è mai fatta concreta, almeno per ora.
Al contrario, la cosiddetta “Consulta” del partito di cui Tajani l’aveva nominata presidente in segno di riconoscimento per il suo ritorno in Forza Italia si è rivelata un organo piuttosto accessorio. Ne fanno parte esperti, accademici e personalità di fama nei vari settori, come il patologo Sergio Abrignani o l’economista Andrea Giuricin, ma anche il regista Pupi Avati. Moratti vorrebbe aumentare l’importanza della Consulta nella struttura interna di Forza Italia, benché Tajani abbia rassicurato i parlamentari più scettici rispetto a questa ipotesi dicendo che non è la Consulta a dare la linea politica al partito.