Se Donald Trump verrà rieletto alla presidenza degli Stati Uniti a novembre, costruirà un’amministrazione più coesa e “leale”. La politica estera assumerà un tono più aggressivo, ma non dovrebbero esserci cambiamenti drammatici sulle questioni più urgenti.
Il potere del presidente in politica estera
A meno che non si vedano per il momento punti di svolta all’orizzonte, tutto lascia pensare che Donald Trump sarà il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti e a novembre assisteremo al ripetersi della sfida del 2020 con Joe Biden.
Che impatto avrà tutto ciò sull’azione internazionale degli Stati Uniti e che tipo di politica estera è possibile immaginare se si insediasse una seconda amministrazione Trump, dopo quella del 2017-2021? Puoi provare a rispondere individuando schematicamente alcuni punti su cui concentrarti.
Il primo punto è che la politica estera e di sicurezza pone più vincoli e costrizioni a chi guida gli Stati Uniti rispetto alla politica interna. Qui sarebbero necessarie mille precisazioni: da un lato, Le dinamiche interne e internazionali sono strettamente interdipendenti e dall’altro bisogna evitare di credere all’idea, storicamente infondata ma ancora popolare, secondo cui la politica estera negli Usa verrebbe condotta sulla base di un solido consenso bipartisan e di una definizione condivisa dell’interesse nazionale.
Detto questo, è chiaro che vincoli sistemici e sfide inaspettate e imprevedibili circoscrivono la libertà di azione e limitano la sovranità stessa anche della potenza superiore dell’ordine globale, quale continuano ad essere gli Stati Uniti. In una certa misura lo abbiamo già sperimentato con la prima presidenza Trump, durante la quale il divario tra retorica e politica non è stato determinato solo dall’incompetenza e dal disinteresse del presidente per l’arte e lo sforzo di governo (che ha avuto anche un impatto), ma anche dall’impossibilità oggettiva di promuovere cambiamenti radicali: di concretizzare con coerenza quella promessa di totale discontinuità su cui si è basata l’ascesa politica del magnate newyorkese.
Anche perché – ed è il secondo punto – anche se a volte ce ne dimentichiamo, la politica estera americana continua ad esserlo il prodotto di un processo pluralisticoe spesso conflittuali, a cui partecipano soggetti diversi, come abbiamo visto negli ultimi mesi. Ad esempio, quando il Senato ha approvato un provvedimento che rende molto difficile, se non impossibile, l’uscita dalla Nato (la decisione dovrebbe essere ratificata, come prevede la Costituzione dei Trattati, con la maggioranza qualificata dei due terzi dei senatori). O quando numerosi gruppi imprenditoriali statunitensi hanno preso posizione contro il piano di Biden di ridurre la presenza cinese nelle catene del valore in cui la Cina continua ad essere indispensabile.
Gli effetti del ritorno sulla scena di Trump
Fatte queste banali premesse metodologiche, è bene soffermarsi sull’impatto che la semplice ricandidatura di Trump – e quindi il suo controllo sulla maggioranza dell’elettorato repubblicano – ha già avuto (e continua ad avere). Lo vediamo in due ambiti principali, non a caso riuniti nella lunga discussione che si svolge da mesi alla Camera dei Rappresentanti: l’Ucraina e la questione dell’immigrazione al confine meridionale con il Messico.
Sulla diminuzione della disponibilità a continuare a finanziare la difesa dell’Ucraina influiscono una pluralità di fattori, dal calo (fisiologico) dell’entusiasmo iniziale alla disillusione sia per la controffensiva di Kiev sia per l’impatto delle sanzioni economiche che, si spera, avrebbero dovuto portare al crollo del regime di Putin. Ma la rinnovata ipoteca di Trump sul Partito repubblicano pesa, e pesa tantissimo. Sappiamo quanto l’ex presidente sia critico nei confronti delle politiche adottate nei confronti della Russia e della sua mancanza di simpatia nei confronti di Zelenskyj e dell’Ucraina. Se vogliamo vedervi una certa dignità strategica, la posizione di Trump riflette un più generale anti-interventismo e, insieme a questo, un’ostilità verso azioni multilaterali e atlantiche come quelle attivate dagli Stati Uniti in risposta all’aggressione russa in Ucraina. La difficoltà nell’approvare nuove linee di aiuto a Kiev è quindi anche una conseguenza del ritorno di Trump. Così come lo sono le azioni dei sindaci e dei governatori democratici in evidente difficoltà su un tema – la crescita dei flussi di immigrati messicani e centroamericani – che sembra essere sfuggito di mano e che rischia di avere un forte impatto elettorale a novembre. Un’emergenza (o presunta tale) che rende vano il compromesso che Biden (e prima ancora Barack Obama) hanno cercato tra un rafforzamento dei controlli al confine meridionale, l’intensificazione e l’accelerazione delle espulsioni e una qualche forma di amnistia per l’11- Sono 12 milioni gli immigrati “illegali” che risiedono nel Paese, a cominciare da coloro che sono entrati negli Usa quando erano ancora minorenni.
Trump II con un’amministrazione più coesa
Per quanto riguarda un ipotetico Trump II, un aspetto da sottolineare è che difficilmente assisteremo ai compromessi e agli equilibri politici che caratterizzarono la sua prima amministrazione. In breve, non avremmo i classici conservatori internazionalisti come il Segretario di Stato Rex Tillerson o il Consigliere per la Sicurezza Nazionale HR McMaster. E neoconservatori molto meno aggressivi come John Bolton (che ha sostituito McMaster nel 2018). Il piano di Trump (e della Heritage Foundation) per effettuare una radicale pulizia della burocrazia federale Inoltre si estende anche al Dipartimento di Stato, dove già nella prima esperienza di Trump si contarono numerose dimissioni. È ragionevole prevedere un’amministrazione più coesa, composta da lealisti di Trump accuratamente selezionati.
Se Trump verrà eletto, la sua amministrazione sarà quindi più coerente, radicale e, presumibilmente, incisiva della prima. Di fare ciò che? Al servizio di quale piano strategico? Su quali file? E con quale vocabolario? I principali documenti strategici del 2017-2021 possono probabilmente servire da bussola a riguardo, a partire da Strategia di Sicurezza Nazionale (Nss) del dicembre 2017 (unica strategia prodotta nel quadriennio).
La retorica sarà quella di un realismo duro, fondato sull’asserita necessità di recuperare la sovranità perduta (“difendere senza scuse la sovranità dell’America”, ha affermato la NSS), di difendere l’interesse nazionale e di considerare alleanze – anche quelle con i più importanti paesi europei e partner asiatici – funzionali, contingenti e in definitiva transazionale. Per raggiungere questi obiettivi verranno adottate diverse politiche. Innanzitutto il sostegno all’industria estrattiva, giustificato dalla necessità di raggiungere la piena autosufficienza energetica (e quindi sovranità) e fondato sulla negazione del cambiamento climatico. Il corollario, qui, sarà ovviamente l’abbandono della COP28 e degli accordi multilaterali sul clima (come fece già Trump nel 2017). In secondo luogo, la politica di sostegno al manifatturiero sarà quasi certamente perseguita attraverso nuove guerre commerciali nelle quali non ci sarà alcuna discriminazione tra alleati e avversari e che prenderà di mira quindi anche i partner europei, Germania in primis. Infine, verranno adottate politiche draconiane riguardo al controllo della frontiera meridionale e all’espulsione degli immigrati clandestini.
Rimangono due dossier critici – Cina e Medio Oriente – sui quali forse le discontinuità saranno meno marcate (anche se tutto, come sempre, dipenderà da dinamiche e attori che gli Usa potranno controllare e determinare solo in parte).
L’idea che la Cina sia ora un concorrente degli Stati Uniti e che sia essenziale realizzare un certo disaccoppiamento tra le due economie e una riduzione del potere di condizionalità di Pechino sulle catene di valore transnazionali costituisce una delle poche aree di convergenza bipartisan quello rimasto. Con Trump quasi sicuramente si alzerà l’asticella dell’aggressione retorica nei confronti di Pechino, ma è difficile immaginare cambiamenti radicali. Così come è difficile immaginarli in relazione al Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese, su cui un’amministrazione repubblicana sarebbe oggi ancora più allineata al fianco di Benjamin Netanyahu e della destra israeliana.
Il divario tra retorica e politiche sarà presumibilmente marcato. Così come la coerenza di un’azione internazionale sarà esposta anche agli eccessi e ai capricci di un presidente noto per la sua mancanza di pazienza e un sostanziale disinteresse per le minuzie e la complessità dell’azione di governo, nonché incline a repentini cambiamenti di umore e di linea (basti pensare al suo atteggiamento nei confronti della Corea del Nord durante il suo primo mandato).
È presumibile che, soprattutto in una prima fase, Trump adotti misure dall’alto valore simbolico, volte a soddisfare il suo elettorato più militante, simili a quelle il suo primo divieto di viaggiocon evidenti contenuti islamofobici, del gennaio 2017, che poi i tribunali hanno bloccato.
Da più parti si sottolinea che l’impatto più marcato di un Trump 2 si avrebbe sul piano interno e su una democrazia attualmente in sofferenza, che rischierebbe di essere resa ancora più fragile. È chiaro, però, che anche su questo i riverberi sarebbero molto più ampi: una crisi, e una possibile implosione, della democrazia statunitense – ipotesi tutt’altro che irrealistica alla luce di quanto visto negli ultimi anni – sarebbe destinata ad avere conseguenze un impatto che andrebbe ben oltre i confini degli Stati Uniti. Anche se non si concretizzasse una deriva autoritaria, la stabilità di un “elastico” federale già teso oltre il limite di guardia sarà messa alla prova, a causa di divergenze estreme nelle politiche pubbliche che riflettono la radicale polarizzazione in atto; ma anche come conseguenza di azioni di politica estera – si pensi all’ambiente e all’immigrazione – che portano Stati e Comuni a rispondere con contropolitiche, alimentando una dialettica tra poteri divenuta a sua volta sempre più tesa e conflittuale.
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