Fascisti», «autoritari», «reazionari», «xenofobi», «oscurantisti», «illiberali», «nazionalisti», addirittura «conservatori». Nessuno di questi aggettivi è pacifico, per descrivere la maggioranza che governa l’Italia o il partito che la guida. Nessuno è privo di un qualche fondamento, magari labile o distante, tenuto nell’ombra o silenziosamente rivendicato nei circoli interni di quella parte politica: ma ciascuno è controverso, discutibile, e tipicamente pronunciato con un intento polemico di fronte al quale i destinatari sentono la necessità di opporre pubbliche smentite. Smentite che l’azione del governo presieduto da Giorgia Meloni ha indirettamente corroborato, sia per la relativa moderazione delle sue politiche interne, che non hanno scatenato le battaglie culturali che la dichiarata opposizione ai lasciti dell’Illuminismo poteva far temere, sia per la diligente continuità con il governo di Mario Draghi nella politica estera e atlantica.
Che la stella polare di partiti che si sono dati il nome di «Fratelli d’Italia» e «Forza Italia» sia l’interesse della nazione è un tratto esplicitamente rivendicato, invece, e da tempo comune alla Lega, che Matteo Salvini ha voluto trasformare da partito regionale e intermittentemente secessionista in partito nazionale e nazionalista. Sono tutti «patrioti», ed è su questo terreno che valuterò la loro azione di governo: l’interesse nazionale.
Ma le conclusioni che tenterò di argomentare riguardano anche i miei concittadini europei e i loro governi e principali partiti politici. Perché le politiche del governo Meloni stanno aggravando la minaccia che da almeno un quindicennio la debolezza dell’Italia pone all’integrità dell’unione monetaria e della stessa Unione europea. Messa in ombra dalla temuta inclinazione nazionalista, illiberale e autoritaria del governo italiano, questa minaccia ha ora ragione di essere la principale preoccupazione dei suoi interlocutori europei.
L’interesse nazionale e la crescita di lungo periodo
Non so dare una definizione sintetica e completa della nozione di interesse nazionale, né in astratto né per l’Italia di questo decennio. Guarderò allora a una variabile che deve essere parte di qualsiasi ragionevole interpretazione di quel sintagma: la crescita economica di lungo periodo, che in Italia ristagna da un trentennio.
Per rendere un’idea del declino economico dell’Italia rispetto ai suoi pari – le altre grandi economie dell’eurozona, e le altre grandi economie occidentali – bastano due indicatori: il prodotto interno lordo (Pil) pro capite, che rispetto all’aggregato è un migliore rivelatore dello stato di salute di un’economia; e il reddito medio disponibile, che misura quanto la famiglia media ogni anno può spendere o risparmiare.Citerò entrambi in termini reali, depurati dell’inflazione, e mi collocherò alla vigilia della pandemia, per escludere gli effetti di un trauma esogeno e gravissimo.
Nel 2019 il Pil pro capite era ancora sette punti percentuali sotto il picco del 2007, fermo su un livello pari a quello raggiunto e superato due decenni prima. Durante il medesimo ventennio in Germania, Francia e Gran Bretagna il Pil pro capite è cresciuto invece di percentuali comprese tra il 22 e il 35 per cento circa, aprendo un baratro con l’Italia. Ancora peggiore è stato l’andamento del reddito medio disponibile, sul quale ha più direttamente pesato lo sforzo di contenere il disavanzo pubblico: nel 2019 era sul livello della fine degli anni Ottanta.
Trent’anni perduti: le promesse tradite della rivoluzione neoliberale hanno seminato insoddisfazione in pressoché tutte le società occidentali, ma la gravità del declino dell’Italia è singolare. È questa la fonte dello scontento che da almeno un quindicennio gonfia la sfiducia politica e la demagogia, e il 25 settembre 2022 ha consegnato la nazione a una forza politica che fu corresponsabile di alcune delle più fallimentari esperienze di governo del passato trentennio, quelle che ebbero Silvio Berlusconi come protagonista, e che nel suo principale documento ideologico, le Tesi di Trieste del dicembre 2017, dichiara di avversare «l’illuminismo [e] la ragione» in difesa dell’«autorità della tradizione».
Le cause del declino
Per valutare l’operato di questo governo nella prospettiva della crescita di lungo periodo devo descrivere le cause del declino dell’Italia. È un tema complicato e controverso, sul quale io stesso mi sono esercitato, ma alcuni punti fermi possono essere isolati.
Le cause immediate sono chiare. L’Italia non cresce soprattutto perché la produttività è ferma, e questo motore di sviluppo si è spento principalmente perché troppi lavoratori e troppi capitali sono dispersi in troppe imprese troppo piccole per prosperare nell’attuale paradigma tecnologico. Il problema è riassunto da questi dati, spesso citati dal passato Governatore della Banca d’Italia: «25.000 imprese medio-grandi (con più di 50 addetti) producono quasi la metà del valore aggiunto del settore industriale e dei servizi non finanziari, con quasi 6 milioni di addetti; l’altra metà è prodotta da 4,3 milioni di piccole imprese, con 6 milioni di addetti, e da 4,8 milioni di lavoratori autonomi. [Quelle 25.000 imprese] sono spesso più produttive delle corrispondenti imprese francesi e tedesche, [mentre le altre] sono molto meno produttive di quelle dei principali concorrenti […]. Se l’Italia avesse la stessa struttura dimensionale delle imprese tedesche, la produttività media del lavoro sarebbe di oltre 20 punti percentuali più alta, superando il livello tedesco.»
Ovunque le imprese nascono piccole, ma col tempo crescono, si aggregano, o escono dal mercato. In Italia troppo spesso esse vivacchiano, senza né crescere né aggregarsi né perire, tenendo sequestrati nelle loro inefficienti strutture lavoratori e capitali che altrove sarebbero più produttivi. In altre parole, troppo raramente i fattori di produzione riescono a organizzarsi su scale adeguate ai requisiti della tecnologia contemporanea: se ciò avvenisse più spesso, mediante la riallocazione di capitale e lavoro da imprese meno produttive a imprese più forti, i livelli di produttività che osserviamo in Germania diverrebbero un obiettivo realistico.
Individuare le cause di questo difetto di organizzazione è più difficile. Nell’interpretazione che mi pare preferibile esse risiedono principalmente nelle regole che governano l’economia; e più che nella loro qualità, che raramente è pessima, il problema sta nella loro scarsa credibilità.
Per illustrare questa tesi prendo a esempio una delle più visibili debolezze delle imprese italiane: la loro relativamente bassa capitalizzazione media. È assodato, in particolare, che ciò contribuisce a spiegare la loro scarsa propensione all’innovazione – che nel lungo termine è il principale motore della crescita della produttività – perché gli investimenti in ricerca e sviluppo sono tipicamente sfavoriti da una struttura finanziaria troppo dipendente dal debito. Ma perché le imprese italiane hanno relativamente poco capitale proprio, e ricorrono al debito più delle omologhe straniere?
Una parte della risposta è che in Italia alcune regole d’importanza cruciale per gli investitori – i fornitori del capitale proprio delle imprese – sono relativamente poco rispettate: quelle sulla redazione dei bilanci, in particolare, e quelle sulla tutela degli azionisti di minoranza. Le leggi che governano queste materie sono generalmente adeguate, e molto simili a quelle francesi e tedesche, perché spesso hanno origine in direttive e regolamenti europei, ma sono più frequentemente violate: secondo le stime del World Economic Forum, pubblicate nel Global Competitiveness Report, il divario è ampio. Per questo in Italia la prospettiva di essere un azionista di minoranza di un’impresa non quotata in borsa è meno allettante che in Francia o Germania; per questo le imprese italiane hanno maggiori difficoltà a reperire capitali propri; per questo i loro proprietari sono più restii a fonderle, per creare imprese più efficienti.
Paradossalmente, tra l’altro, questi svantaggi sono in parte compensati da altri fattori che egualmente dipendono dallo scarso rispetto della legge, come l’opportunità di stringere legami collusivi con l’amministrazione pubblica, per esempio, o la possibilità di evadere le imposte: comportamenti che danneggiano l’economia, e spesso accrescono gli incentivi delle imprese a rimanere piccole, ma aumentano la competitività e i profitti di quelle che vi ricorrono, a scapito di quelle che invece rispettano le regole.
La supremazia della legge e il reddito
Il problema è più vasto: in generale, in Italia le leggi sono meno rispettate che nei suoi pari. Tutti gli indicatori disponibili lo attestano.
Uno dei più affidabili è l’indicatore di «rule of law» (che tradurrei in ‘supremazia della legge’) elaborato dalla Banca mondiale. Ogni anno esso stima la percezione di quanto la legge sia credibile e rispettata in ciascuna nazione, e le ordina secondo una scala che va da 2,5 a –2,5. Nell’ultima rilevazione disponibile, sui dati del 2022 in testa alla graduatoria era la Finlandia, per esempio, con un livello di 1,96, e in coda la Somalia, con un livello di –2,29. Quello stesso anno il livello dell’Italia era 0,30, e la media dei suoi pari 1,31. Un baratro, nuovamente, e un baratro crescente: nel 1996, quando iniziarono queste stime, il livello dell’Italia era 1,06 e la media dei suoi pari 1,50.
Questo indicatore, che misura una variabile di estensione sterminata, deve essere preso con cautela. Nondimeno, la forbice che separa l’Italia dai suoi pari è simile a quella restituita dagli indicatori sulla corruzione, e collima col fatto che l’evasione fiscale è tra il doppio e il triplo che in Francia, Germania e Gran Bretagna. Tutto suggerisce che quell’indicatore segnali un problema reale, se non le sue esatte proporzioni.
Di nuovo, i rapporti di causa tra questo problema e il ristagno della crescita sono una questione difficile. Piuttosto che riassumere la mia interpretazione preferisco limitarmi a mostrare la correlazione tra il reddito pro capite e la supremazia della legge, come essa è misurata dall’indicatore della Banca mondiale. Questo graficioincrocia le due variabili a distanza di un decennio l’uno dall’altro, e copre i paesi membri dell’Unione e i paesi balcanici.
La distanza che separa l’Italia dalla retta che segna la correlazione significa che essa è apprezzabilmente più prospera di quanto il suo livello di supremazia della legge lascerebbe prevedere. Ma di decennio in decennio essa scende sempre più in basso e a sinistra rispetto ai suoi pari.
Siccome qui commento una semplice correlazione e non un rapporto di causa sarebbe altrettanto legittimo fare il commento inverso (ossia che l’Italia è sempre meno rispettosa della legge di quanto il suo livello di reddito lascerebbe prevedere), o dire che entrambi i fenomeni sono determinati da una terza variabile (la cultura, per esempio). Ma è più probabile che l’effetto predominante sia quello, diretto o indiretto, che la supremazia della legge esercita sul reddito. Traggo l’argomento forse più intuitivo per sostenere questa tesi da uno dei più stimati economisti del secolo scorso, Kenneth Arrow. Egli riteneva che «molta dell’arretratezza economica presente nel mondo può essere spiegata dall’assenza di fiducia reciproca»; ma la fiducia reciproca dipende in larga misura dalla credibilità delle regole, e questa, a sua volta, dipende soprattutto da quanto le regole sono rispettate. Pare pertanto prudente pensare che scendendo verso livelli balcanici di supremazia della legge, come la tendenza trentennale deve farci temere, prima o poi l’Italia scenderà a livelli balcanici di reddito.
Questa profezia può sembrare provocatoria, perché l’Italia conta molte eccellenti imprese, ai vertici dei loro settori nel mercato globale, e nella media quelle di dimensioni minimamente consistenti competono alla pari con le omologhe francesi e tedesche, come ho ricordato sopra, e spesso prevalgono. Ma per quanto distante possa sembrare il rischio che quella correlazione suggerisce, ignorarlo sarebbe imprudente.
Un difetto congenito, o un problema politico?
Giunto a questo punto vorrei sgomberare il campo dall’ipotesi, che talvolta riaffiora, che lo scarso rispetto delle regole sia un portato della storia della penisola, ineliminabile nel futuro prevedibile, o sia in qualche modo congenito alla cultura dei suoi abitanti: perché se ciò fosse vero nessun governo potrebbe eradicare le cause profonde del malessere economico dell’Italia, ma solo lenirne qua e là i sintomi.
Esiste una spiegazione più semplice, convincente e rispettosa della libertà umana. Essa impone una digressione attraverso temi che potranno apparire astratti, ma che invece completeranno la lente di analisi attraverso la quale, subito dopo, guarderò all’operato del governo Meloni.
In parte, sappiamo benissimo cosa spieghi la persistente debolezza della supremazia della legge. Al crescere delle violazioni delle regole decresce l’incentivo a rispettarle, infatti, e alla lunga anche la spinta morale: se sempre più persone gettano cartacce per terra, per esempio, le strade si riempieranno di rifiuti e gettarli nel cestino diventerà un gesto sempre più vano, e alla fine dadaista.
La logica è chiara. Ma è quella di un «dilemma del prigioniero», nel lessico della teoria dei giochi, nel quale le strade si riempiranno inesorabilmente di cartacce? O è la logica di un «gioco di coordinamento», nel quale le strade possono sempre tornare a essere pulite? La differenza sta nei rendimenti individuali. Nel dilemma del prigioniero violare la regola è la strategia più attraente; nel gioco di coordinamento non lo è.
Nel dilemma del prigioniero io raggiungo il rendimento più alto quando violo la regola e la mia controparte la rispetta: quando mi approfitto del suo comportarsi bene, in altre parole. La mia controparte lo sa, si aspetta che tenterò di fare il furbo, e mi preverrà violando la regola lei stessa. Quindi il mio rendimento alto svanirà, e la strada si riempierà di cartacce.
Nel gioco di coordinamento, invece, io raggiungo il rendimento più alto quando entrambi rispettiamo la regola. Fare il furbo mi dà un rendimento più basso, e lo stesso vale per la mia controparte. Quindi entrambi ci aspetteremo che l’altro rispetterà la regola; entrambi la rispetteremo; e il risultato sarà l’equilibrio superiore, che è stabile.
Nel gioco di coordinamento violare le regole risponde sempre a una logica difensiva. Se una delle due persone violasse la regola, per motivazioni esterne a questa logica, l’altra subirebbe un danno, e la prossima volta risponderebbe violando lei stessa la regola, per limitare i danni. Così si scende all’equilibrio deteriore, che è anch’esso stabile perché cementato dalla reciproca diffidenza e dall’incentivo a limitare i danni.
Ma a differenza che nel dilemma del prigioniero per risalire all’equilibrio superiore basta coordinare le aspettative dei due protagonisti, mediante un segnale credibile. Se grazie a questo segnale entrambi si convinceranno che l’altro rispetterà la regola, entrambi torneranno a rispettarla: perché è in questo modo che entrambi otterranno il massimo rendimento individuale.
Mi pare indubbio che entrambe le logiche siano presenti nella società italiana, e in altre simili, ma credo che la vasta maggioranza dei cittadini e delle imprese agisca perlopiù dentro i parametri di un gioco di coordinamento. Per spiegare questa tesi torno a un esempio già fatto.
Gli imprenditori hanno un interesse comune a operare in un contesto nel quale i bilanci aziendali sono ritenuti affidabili e i diritti degli azionisti di minoranza sono giudicati credibili, perché ciò minimizza il costo del capitale e massimizza la sua disponibilità. Ma essi possono avere anche un interesse individuale a manipolare i bilanci, o a depredare gli azionisti di minoranza di parte dei loro profitti. Qualora prevalesse questo secondo interesse, il contesto deteriorerebbe; e ciò progressivamente spingerebbe anche gli imprenditori virtuosi ad allineearsi a quelle prassi, perché chi invece scegliesse di continuare a rispettare le regole subirebbe sia uno svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti più spregiudicati, sia gli effetti della crescente sfiducia degli investitori.
Ma pochi possono trarre dalla manipolazione dei bilanci o dalla predazione degli azionisti di minoranza vantaggi stabilmente superiori allo svantaggio di operare in un contesto di generalizzata sfiducia degli investitori. Anche dal profondo dell’equilibrio deteriore, pertanto, nel momento in cui una massa critica di imprenditori si convincesse – grazie a un’azione credibile del potere politico, per esempio – che le condizioni di contesto sono in procinto di migliorare, la vasta maggioranza di essi tornerebbe a rispettare le regole (perché ciascun imprenditore proietterebbe il proprio ragionamento sugli altri, e sarebbe disposto ad abbandonare la logica difensiva indotta dall’equilibrio deteriore, quella della limitazione delle perdite, per mirare al più alto rendimento che l’equilibrio superiore garantisce).
Questa è la logica del gioco di coordinamento, dentro la quale ciò che ho definito «azione credibile del potere politico» ha svolto il ruolo di segnale di coordinamento, che ha innescato la transizione dall’equilibrio deteriore a quello superiore. Nei medesimi termini questa logica anima molti simili dilemmi, e in particolare questi tre: competo o colludo col mio concorrente? corrompo l’amministratore pubblico, o accetto la gara di appalto? pago tutte le imposte, o ne evado una parte? Ciascuno di essi è un problema politico, e ciascuno incide sul difetto di organizzazione che imbriglia il potenziale dell’economia italiana.
L’operato del governo Meloni
Integrata da quest’ultima osservazione sull’importanza dei segnali trasmessi dal potere politico, l’analisi che ho tracciato sopra, per breve che sia, consente di valutare l’operato del governo Meloni nella prospettiva della crescita di lungo termine.
Insediato il 22 ottobre 2022, la sua prima significativa scelta di politica economica fu la revisione del progetto di legge di bilancio per il 2023 che il governo Draghi aveva costruito. La revisione incluse un largo condono per l’evasione fiscale e l’elevazione da duemila a cinquemila euro del limite per l’uso del contante. Il governo voleva anche assoggettare a una soglia minima – di sessanta e poi quaranta euro – l’obbligo dei commercianti di accettare i pagamenti elettronici, ma dovette cedere di fronte al rilievo che questa misura era incompatibile con gli impegni assunti nel quadro del piano nazionale di attuazione di Next Generation EU.
Accusata di favorire l’evasione fiscale e l’economia informale, che è il tipico effetto di simili misure, il 26 maggio 2023, durante un comizio elettorale in Sicilia, Meloni si difese con queste parole: «La sinistra dice: voi volete gettare la spugna contro l’evasione fiscale. Ma l’evasione si va a cercare dove sta, nelle big company, non dal piccolo commerciante dove vai a chiedere il pizzo di Stato.»
La tesi che l’evasione fiscale sia praticata più dalle grandi e grandissime imprese che dai circa dieci milioni di lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori è irricevibile: in questi settori si stimano altissimi livelli medi di infedeltà fiscale. Ma soprattutto, nell’italiano corrente ‘pizzo’ è il nome di ciò che in inglese si chiama ‘protection money’. Sono i soldi che commercianti e imprese versano alle organizzazioni criminali che sono in grado di ricattarli: fenomeno particolarmente diffuso proprio in Sicilia, nelle aree dove la mafia è più forte. Meloni ha equiparato l’obbligazione fiscale dei cittadini verso la Repubblica al ricatto della mafia.
Simili dichiarazioni non si sono ripetute, ma da quando questo governo si è insediato ha concesso quattordici condoni fiscali e ha sempre insistito nella difesa dei settori nei quali l’evasione è più diffusa, e che formano una parte consistente del loro elettorato. Il 10 novembre scorso, per esempio, parlando alla Confederazione degli artigiani e delle piccole e medie imprese, Meloni ha detto: «Noi combattiamo l’evasione fiscale, quella vera, non quella presunta. […]. Nei giorni scorsi in Consiglio dei ministri abbiamo approvato una norma [che] interviene sulla disciplina dell’accertamento, riduce le sanzioni e introduce il concordato preventivo biennale [ossia un accordo tra contribuente e fisco sulle imposte da pagare in futuro]. […]. Un approccio che spezza l’insopportabile equazione secondo cui un artigiano, una Pmi [ossia una piccola o media impresa], una partita Iva [ossia un professionista o altro lavoratore autonomo], deve essere un evasore per nascita. Una menzogna, che noi abbiamo combattuto sempre.»
Un altro condono fiscale è incluso nella legge di bilancio per il 2024.
Potrei citare altre misure e proposte, che egualmente indeboliscono la prevenzione o la repressione dell’illegalità diffusa e del crimine economico – l’elevazione delle soglie oltre le quali gli appalti pubblici sono soggetti a gare pienamente competitive, per esempio, o la riduzione del termine di tempo entro i quali i reati sono punibili. Ma sarebbero digressioni superflue, perché a fronte di queste iniziative non ne esiste alcuna che miri credibilmente a rafforzare la supremazia della legge. Il segnale che questa linea politica trasmette alla società italiana è chiaro, univoco e sonoro: questo governo sarà tollerante verso l’evasione fiscale, la criminalità economica e l’economia informale.
(Se ne avessi lo spazio aggiungerei alla lista il nepotismo, incluso il più spicciolo, e la collusione con gli interessi particolari, inclusi i più forti – anche tramite una politica economica sbilanciata verso sussidi alle imprese ‘senza alcuna strategia di sviluppo industriale’, che rischia di nuocere anche alla riallocazione).
A parità di altre condizioni, questo segnale rafforzerà gli incentivi che spingono cittadini e imprese verso la strategia difensiva del gioco di coordinamento, manterrà la supremazia della legge sulla sua traiettoria discendente, affievolirà le spinte verso la riallocazione di capitale e lavoro tra imprese deboli e imprese più forti, e deprimerà la dinamica della produttività. A questo effetto si aggiungeranno le conseguenze dirette di una probabile crescita dell’evasione fiscale e forse anche dell’economia informale e della corruzione, che sono tutte cause di misallocazione delle risorse. La sola questione è quanto soffrirà la crescita rispetto a un controfattuale nel quale il governo agisca per rafforzare la supremazia della legge.
Inoltre questa dannosa ventata ha preso a soffiare sull’economia italiana proprio mentre la ripresa dalla pandemia poteva portare nuova linfa alle gemme che avevano iniziato a fiorire nel decennio scorso. Uno studio pubblicato nel 2018 dalla Banca d’Italia rileva che poco dopo la crisi finanziaria globale la produttività del settore manifatturiero iniziò ad accelerare, raggiungendo già attorno al 2011 tassi di crescita superiori a quelli osservati in Francia e Spagna. Le principali ragioni paiono essere due: «le accresciute pressioni concorrenziali globali sostennero significativi aggiustamenti strutturali, con una riallocazione delle risorse verso le imprese migliori»; e «la lunga recessione innescò ulteriori miglioramenti dell’efficienza allocativa, l’uscita dal mercato delle peggiori imprese, l’ingresso di imprese meglio selezionate e un aumento nella spesa in ricerca e sviluppo». In larga misura queste sono spinte spontanee alla riallocazione. È inverosimile che svaniranno del tutto, pertanto, ed è probabile che su di esse reagiranno positivamente gli investimenti e le riforme associati a Next Generation EU: ma il segnale che il governo Meloni ha trasmesso al settore privato le indebolirà.
In una parola, ciò che unisce la coalizione politica ed elettorale guidata da Meloni è la predazione delle risorse pubbliche e dei ceti più deboli. È predazione misurata e nascosta, naturalmente, ma richiede pressoché sistematica impunità. Ciò incrina l’eguaglianza di fronte alla legge, che prima ancora di essere un requisito di giustizia è una condizione della funzionalità dello Stato. Quindi non deve sorprendere che in Italia lo Stato funzioni sensibilmente peggio che in società comparabili e l’economia sia meno produttiva: sono i costi della predazione diffusa.
La minaccia per l’Europa
Questa può sembrare un’analisi incompleta e troppo rapida. Lo è, indubbiamente; ma la ragione è che si concentra su ciò che più conta nella prospettiva della crescita di lungo termine, ossia sul difetto di organizzazione che verosimilmente priva l’economia italiana di un quinto della sua produttività potenziale.
La crescita di lungo periodo, a sua volta, è una variabile importante nella valutazione della sostenibilità del debito pubblico, la cui dimensione rispetto al Pil – 142,4 per cento, secondo le ultime analisi di Eurostat – è di oltre venti punti percentuali superiore al livello dell’autunno 2011. In quei mesi un’ondata di sfiducia nei mercati innescò una crisi gravissima, che investì sia la solvibilità dell’Italia sia la tenuta dell’unione monetaria, e fu superata solo quando al cambio di governo – da Berlusconi a Mario Monti – e alla drastica correzione della politica di bilancio si affiancarono le politiche straordinarie della Banca centrale europea: fu allora che il suo Presidente, Mario Draghi, annunciò la determinazione dell’istituto a fare «whatever it takes» per preservare l’euro. Ma qualora simili rischi riemergessero non è scontato che simili rimedi basterebbero a superarli, anche perché quell’annuncio non potrebbe essere ripetuto con la medesima credibilità.
L’azione del governo Meloni sta accrescendo il rischio che una simile crisi si ripeta. Il pericolo non pare imminente, perché il divario tra il rendimento dei titoli del debito pubblico italiano e quello dei titoli tedeschi è distante dai livelli di allora. Ma l’equilibrio è delicato, e vulnerabile alle turbolenze che la presente instabilità geopolitica potrebbe provocare.
I suoi interlocutori europei dovrebbero vedere nel governo Meloni una seria, seppure distante, minaccia per l’integrità dell’eurozona e della stessa Unione (anche perché l’opposizione non pare ancora in grado di incalzarlo efficacemente, neppure sui terreni che ho discusso). Una parte del potere negoziale del quale essi si avvalgono nei loro scambi col governo italiano potrebbe dunque essere allocato al tema della supremazia della legge (anche per proteggere i propri contribuenti dalle possibili conseguenze di questa scandalosa tolleranza per l’illegalità).
Le ombre del passato
Dieci giorni dopo essersi insediato, il 31 ottobre 1922, il governo presieduto da Benito Mussolini abolì la regola che imponeva la trasparenza della proprietà delle azioni emesse dalle imprese. Essa era stata introdotta pochi anni prima, dopo lunga discussione, per contrastare l’evasione fiscale. Nelle sue memorie Galeazzo Ciano, uno dei massimi gerarchi del regime, riconosce candidamente la tolleranza del Fascismo verso l’evasione.
Due anni dopo la sua caduta, nel 1947, uno dei padri della costituzione repubblicana, Piero Calamandrei, scrisse che la corruzione era una componente fisiologica del regime, perché la solidarietà tra corrotti e corruttori – ciascuno vulnerabile al ricatto dell’altro, e a quello del «tiranno» (qui è citato Étienne de La Boétie) – era per esso una garanzia di stabilità.
Il 19 giugno 1975, tre giorni dopo l’eccellente risultato del Partito comunista italiano alle elezioni amministrative, il celebre corsivista del quotidiano del partito, il cui nom de plume era Fortebraccio, rispose a un editoriale del principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera, che accusava i comunisti di avere «intenzioni recondite». L’«intenzione» dei comunisti, scrisse Fortebraccio, è «far vedere agli italiani come si governa con onestà», e l’«obiettivo finale [è] far giustizia presso i lavoratori, far pagare i parassiti e lor signori, ammanettare gli speculatori, mandare in galera i ladri».
Sopitosi il timore di una risorgenza del fascismo conviene riflettere su queste continuità e discontinuità, che spero sconcerteranno i lettori non italiani.