La formazione di un governo e l’approvazione di un bilancio dopo un lungo periodo di instabilità politica, così come la convergenza di dinamiche regionali e internazionali favorevoli, offrono a Israele l’opportunità di affrontare le sfide interne e di politica estera che lo attendono. Rimangono però notevoli elementi di possibile destabilizzazione, come per esempio la complessità e la fragilità dell’attuale governo e la necessità di rafforzare le carenti strategie perseguite verso le tre principali sfide: l’arena domestica, la questione palestinese e lo scenario iraniano. Questo particolare momento storico potrebbe rivelarsi un’occasione fondamentale per riesaminare e intervenire sugli approcci adottati, elaborando così delle strategie che possano finalmente rispondere a pieno agli interessi dello stato.
Quadro interno
Il mese di Ramadan si è riconfermato essere un momento cruciale per la sicurezza e la politica israeliana, quest’anno in special modo vista la coincidenza con la Pasqua ebraica. I primi episodi di violenza sono cominciati il 22 marzo con l’attacco terroristico di Be’er Sheva, il primo di una serie di altri tre attentati avvenuti a Hadera, Bnei Brak e Tel Aviv che hanno causato 14 vittime in due settimane.
Se a un primo sguardo queste azioni potrebbero essere catalogate sotto la denominazione “conflitto israelo-palestinese”, una più attenta osservazione rende la classificazione di questi eventi più ardua per via della quasi assenza di minimi comuni denominatori. Gli autori di questi attentati hanno diverse origini: un abitante beduino del Negev, due cittadini arabo-israeliani e due palestinesi provenienti dalla Cisgiordania. Sfugge anche la motivazione scatenante degli attacchi, ma il dettaglio che potrebbe accomunarli è che sono avvenuti in un momento particolarmente proficuo nelle relazioni tra Israele e gli stati arabi della regione, i quali hanno bypassato la questione palestinese firmando accordi con gli israeliani. Infatti, se in passato il conflitto era stato un ostacolo per il rapporto tra Israele e i suoi vicini mediorientali, ora sembra essere passato in secondo piano. L’affermarsi di questa dinamica sul piano diplomatico potrebbe avere innescato un senso di rivalsa e vendetta più ampio, che renderebbe più difficile per i servizi di sicurezza (Shin Bet) anticipare questi eventi.
In risposta agli attentati, l’esercito (le Forze di difesa israeliane, Idf) e lo Shin Bet hanno concentrato la loro pressione in particolare nella Cisgiordania settentrionale (in particolar modo Jenin), da cui provenivano tre degli assalitori. Questa situazione ha contribuito molto velocemente a un innalzamento della tensione nei Territori dove, nell’ultimo mese si sono verificati circa sessanta episodi di rappresaglie tra palestinesi e coloni.
Su questo sfondo, si sono inserite le provocazioni di gruppi estremisti religiosi ebraici riguardo al Monte del Tempio: durante la settimana di Pesach, il movimento Hozrim Lahar aveva infatti incoraggiato a recarsi presso il luogo sacro e a compiere il sacrificio pasquale. L’iniziativa ha suscitato forti reazioni nella comunità arabo-musulmana, in quanto considerata un tentativo di violazione dello status quo vigente e di appropriazione da parte delle frange nazional-religiose del sito.
Ad accrescere le tensioni ha contribuito anche il consistente aumento del numero di pellegrini ebrei che pregano sul Monte del Tempio; questa dinamica ha dato spazio alla circolazione di teorie del complotto e fake news diffuse sui social media, secondo le quali il governo israeliano sta mettendo in atto un piano per cambiare lo status quo del complesso dell’Haram al-Sharif[1]. La realtà dei fatti è che Israele non ha alcun progetto concreto di prendere il controllo del luogo sacro, invece le iniziative e i comportamenti che hanno fomentato le violenze da parte araba sono stati portati avanti da singoli individui o da movimenti estremisti nazional-religiosi.
In reazione, la sera del 14 aprile autobus con giovani arabi israeliani provenienti dal nord del paese sono arrivati a Gerusalemme per recarsi a pregare alla moschea di Al-Aqsa, come avviene solitamente nel periodo di Ramadan, ma questa volta l’intenzione era di anticipare la tradizionale veglia notturna presso l’Haram al-Sharif (che di solito ha luogo nelle ultime 10 notti di Ramadan). Il mattino successivo, alla preghiera delle quattro, erano presenti migliaia di persone e un consistente gruppo di rivoltosi ha iniziato il lancio di pietre verso la Porta Mughrabi, barricandosi successivamente all’interno della moschea, portando all’irruzione della polizia israeliana all’interno di Al-Aqsa.
Gli scontri sull’Haram al-Sharif sono nuovamente ripresi giovedì e venerdì mattina, dopo che centinaia di visitatori ebrei hanno raggiunto il sito; il 21 aprile infatti è stato l’ultimo giorno in cui i fedeli di religione ebraica potevano salire sul Monte del Tempio fino alla fine del mese di Ramadan; inoltre, a esacerbare la tensione, ha contribuito la manifestazione organizzata dal parlamentare Ben Gvir insieme ad altri movimenti di destra nazional-religiosa. Centinaia di attivisti hanno apertamente sfidato gli ordini del governo e della polizia, dirigendosi verso il quartiere musulmano della Città Vecchia.
Il complesso della Spianata delle Moschee/Monte del Tempio è l’epicentro emotivo del conflitto israelo-palestinese e le tensioni possono facilmente trasformarsi in scontri più ampi, all’interno di Israele e con Gaza, come successe a maggio del 2021.
Di fronte a questo precario equilibrio, il primo ministro Naftali Bennett ha adottato una linea di azione dura ma che al contempo contenesse l’escalation delle violenze. In quest’ottica, dopo i primi scontri, sono state prese due decisioni importanti: la non chiusura dei Territori, continuando a permettere anche ai fedeli provenienti dai Territori palestinesi di recarsi ad Al-Aqsa e il divieto per turisti e pellegrini ebrei di accedere al Monte del Tempio fino alla fine del Ramadan.
Contemporaneamente, non sono venuti a mancare gli attacchi dell’opposizione (sia da parte dei partiti di destra, sia dei partiti arabi), che hanno colto l’occasione per indebolire la coalizione, già provata dalle recenti dimissioni della parlamentare di Yamina, Idit Silman. Lo scossone che ha fatto tremare il fronte di governo è giunto però da uno dei suoi componenti: il 17 aprile, come conseguenza degli scontri, il partito islamista Ra’am (Lista araba unita) ha comunicato di voler congelare il suo status di membro della coalizione. Ma cosa significa in realtà? Il partito non ha lasciato il governo (per ora) ma ha sospeso la sua partecipazione alle attività della Knesset, come le votazioni in plenum o nei comitati. In aggiunta al congelamento, il leader Mansour Abbas ha presentato al primo ministro un elenco di richieste, dicendo che se saranno soddisfatte Ra’am interromperà l’astensione. Queste richieste includono l’impegno a mantenere lo status quo nel complesso della moschea di Al-Aqsa, insieme all’avanzamento di politiche importanti per la comunità arabo-israeliana, fino a ora rallentate dal ministro dell’Interno Ayelet Shaked.
Questa sospensione delle attività di Ra’am sembrerebbe però essere stata messa in atto in coordinamento con il ministro degli Esteri Yair Lapid e con il primo ministro Naftali Bennett, giungendo a un compromesso che consentisse appunto ad Abbas di prendersi cura degli interessi del suo partito senza però compromettere il governo. Il margine per questa manovra è stato fornito dal fatto che la Knesset fosse nel pieno della pausa pasquale, concedendo così tempo prezioso a Bennett per tentare di stabilizzare la coalizione.
Una ulteriore battuta d’arresto per il governo si è verificata quando, dopo pochi giorni dall’inizio della sessione estiva della Knesset, la parlamentare di Meretz Ghaida Rinawie Zoabi ha presentato le sue dimissioni come membro della coalizione, trasformando così il governo di Bennett in un esecutivo di minoranza con 59 seggi contro i 61 dell’opposizione. La crisi è rientrata quando Zoabi è ritornata sui suoi passi nell’ultima settimana di maggio.
A ogni modo, nonostante le criticità, rimarrebbe comunque difficile per Netanyahu formare la propria coalizione tornando a essere così primo ministro; specialmente senza la composizione parlamentare attuale. Servirebbero quindi nuove elezioni ma, prima di tutto, le probabilità di successo nel far approvare il voto di sfiducia alla Knesset rimangono alquanto incerte e, in secondo luogo, anche se questa eventualità si realizzasse, gli ostacoli nello scenario post-elettorale che impedirebbero a Netanyahu di formare una coalizione di governo rimarrebbero immutati, come nel 2021. Questo perché il fronte “rak lo Bibi” (chiunque eccetto Bibi) non si è formato su una base puramente ideologica, ma principalmente sull’obiettivo di porre fine alla premiership di Netanyahu. Inoltre, l’annuncio di elezioni anticipate non risulterebbe a portata di mano, in quanto la dissoluzione della Knesset richiederebbe 61 voti e, attualmente, ci sono molti partiti che non sono pronti ad affrontare una nuova tornata elettorale, tra cui Giudaismo Unito della Torah e Shas, appartenenti all’opposizione.
Sullo sfondo, a Gerusalemme sta continuando a svolgersi il processo a Benjamin Netanyahu che, da qualche mese, sta prendendo in considerazione l’opzione di firmare un patteggiamento con il procuratore generale. Questo ipotetico accordo si dovrebbe basare sull’ammissione da parte di Netanyahu della sua colpevolezza per le due accuse di frode e abuso di fiducia; in cambio gli altri due capi di imputazione verrebbero ritirati e la carcerazione commutata in pochi mesi di servizio alla comunità. Ma l’esitazione di Netanyahu nel firmare è dovuta all’inclusione della clausola di turpitudine morale[2] (kahlon), che comporta l’esclusione dal ricoprire cariche pubbliche per sette anni, facendo perdere a Netanyahu il ruolo sia di leader dell’opposizione sia di leader del Likud e impedendone quindi la candidatura in un’altra elezione per questo decennio.
Anche nel caso in cui, però, l’ex primo ministro accettasse il patteggiamento inclusa la clausola di kahlon e fosse quindi costretto a dimettersi dalla Knesset, non è detto che debba per forza rinunciare alla leadership del Likud; decisione che potrebbe essere rimessa al comitato centrale del partito e che potrebbe deliberare diversamente.
Lo scenario di eleggere un nuovo capo di partito aprirebbe un protratto periodo di lotte interne che causerebbe la paralisi del Likud. Inoltre, i candidati alla successione dovrebbero fare i conti con la lealtà di una massiccia maggioranza dei membri di partito verso Netanyahu, che difficilmente scomparirebbe istantaneamente. Questo significa che il prossimo leader del partito dovrà ottenere il benestare del suo predecessore. In quest’ottica il Likud rimarrà ancora a lungo sotto l’influenza di Bibi.
Questo vuol dire che le previsioni del collasso imminente del governo nel momento in cui Netanyahu venisse (almeno parzialmente) rimosso dalla scena politica, devono essere ridimensionate. Prima di tutto, i membri della coalizione sarebbero pienamente consapevoli della presenza di Netanyahu dietro le quinte del Likud e nessuno di loro vorrebbe unirsi a un governo dove l’ex primo ministro è ancora così influente. Inoltre, bisogna considerare le aspre animosità tra i parlamentari del Likud e i membri dei partiti di destra che si sono uniti al governo Bennett, che non permetterebbero un riappacificamento abbastanza rapido tra le parti da poter formare una nuova coalizione in breve tempo. Infine, la struttura peculiare del governo, dà alla coalizione un grosso incentivo per sopravvivere: ciascuno dei partiti, infatti, gode di un’ampia indipendenza nel gestire i propri ministeri, che non avrebbe in una coalizione più tradizionale.
Per tutti questi motivi la firma del patteggiamento di Netanyahu non porterebbe a un terremoto politico in Israele. Alla luce di questi scenari la domanda politica più pressante al momento, non riguarda la durata dell’attuale governo, ma se questa coalizione vivrà abbastanza lungo da andare alle elezioni senza Netanyahu come leader del Likud.
Politica estera
Le priorità in campo di politica estera e di sicurezza sono influenzate in special modo dal rafforzamento della valutazione per cui gli Stati Uniti stiano riducendo il proprio coinvolgimento in Medio Oriente, con la conseguente creazione di un vuoto di potere che la Russia potrebbe sempre di più colmare. Questa dinamica si può osservare in maniera più evidente sulle ripercussioni mediorientali della guerra tra Ucraina e Russia, il cui andamento rischia di modificare il raggiungimento di fondamentali obiettivi strategici e di sicurezza israeliani.
La posta in gioco è alta: da un lato Israele non può permettersi di allontanare i suoi alleati americani e occidentali (sostenitori dell’Ucraina), dall’altra non può nemmeno rischiare di rovinare i buoni rapporti con il Cremlino. Dal 2015, infatti, la Russia ha dispiegato in Siria i propri contingenti militari per sostenere il regime di Bashar al-Assad; negli ultimi sette anni quindi, Israele ha coordinato operazioni aeree contro obiettivi iraniani con Mosca permettendo così all’esercito israeliano di continuare a operare in Siria senza scontrarsi con i russi. Per Israele questa tacita intesa con la Russia non è quindi semplicemente una risorsa, bensì una necessità strategica per poter mantenere la libertà di azione sui cieli siriani. Un altro importante elemento di valutazione riguarda la preoccupazione israeliana di voler salvaguardare le comunità ebraiche presenti sia in Russia sia in Ucraina.
In questo contesto si inseriscono gli sforzi di mediazione israeliana tra i due fronti in guerra, iniziati il 5 marzo con il volo di Bennett a Mosca per incontrare Vladimir Putin, e proseguiti tramite conversazioni telefoniche sia con il presidente russo sia con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. I forti legami di Israele con i due paesi teoricamente consentono a Bennett di fungere da intermediario tra Putin e Zelensky e di trasmettere proposte coordinandosi con gli Stati Uniti e l’Europa, colmando le lacune di comunicazione esistenti tra Washington e Mosca e tra Kiev e Mosca.
Bisogna sottolineare però che Israele non è in realtà nella posizione di fungere da vero mediatore per questo conflitto perché manca di un elemento essenziale: non c’è nulla che possa offrire a Mosca per fermare il suo assalto all’Ucraina, e nessun motivo particolare per cui Putin dovrebbe prestare attenzione alle richieste o alle preoccupazioni israeliane su questo tema. L’unico modo in cui Bennett può avere successo è nel caso in cui fosse in grado di offrire a Putin una via d’uscita costruita in coordinamento con gli Stati Uniti e l’Europa. Seguendo questa riflessione, un approccio più cinico suggerirebbe quindi che il tentativo di Bennett di agire da mediatore sia in realtà una copertura per proteggere gli interessi israeliani rimanendo neutrale.
L’amministrazione Biden, seppur favorevole all’iniziativa israeliana, desidererebbe vedere il governo di Bennett fornire aiuti militari a Kiev e unirsi alle sanzioni internazionali contro Putin. La situazione di Israele è quindi molto più precaria di quanto non possa sembrare, specialmente se si tiene conto dei negoziati sul Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action) che fanno da sfondo a queste vicende e che richiedono a Israele di mantenere salde le sue relazioni con Washington.
Tenendo conto che l’amministrazione Biden non ha intenzione di investire risorse in ambiti che non sono parte degli stretti interessi americani, ciò ha fatto sì che Israele stia impegnando risorse e sforzi consistenti per rafforzare l’impianto degli Accordi di Abramo e per affrontare le sfide comuni. Il cambiamento dell’architettura regionale ha dato a Israele l’opportunità (e al contempo il crescente bisogno) di approfondire le relazioni con gli attori della regione; in questo quadro si inserisce il Summit del Negev avvenuto a fine marzo scorso. In questa occasione, Israele ha ospitato i ministri degli Esteri di Bahrain, Egitto, Marocco ed Emirati Arabi Uniti (Eau) in presenza del segretario di stato americano Antony Blinken, annunciando che la conferenza sarebbe stato il primo incontro di un forum regionale permanente e riaffermando l’importanza di crescenti legami tra Israele e il Medio Oriente. L’incontro è stato interpretato come un tentativo di creare un fronte contro un nemico regionale condiviso: l’Iran.
Bisogna sottolineare come la formazione di un governo in Israele e l’approvazione del budget dopo alcuni anni di instabilità rende ora possibile concentrarsi sulle sfide alla sicurezza più impellenti, nonostante la complessa composizione del governo. La situazione strategica attuale israeliana non deve essere sottovalutata; come indicato nella Strategic Survey for Israel 2022 dell’Inss1, al momento infatti vi sono tre principali dimensioni che stanno impegnando particolarmente gli sforzi di Israele: il piano interno, il focus iraniano e il teatro palestinese. Tutti e tre mantengono un alto livello di intensità e la sfida più grande è riuscire a concepire un approccio integrato per affrontare contemporaneamente le tre dimensioni, strettamente interconnesse tra loro.
L’Iran è senza dubbio la minaccia esterna più impellente, sia per quanto riguarda la sua capacità militare, sia per la sua visione strategica regionale; per arginare la minaccia iraniana Israele sta approfondendo il coordinamento con lo storico alleato americano, cercando di andare al di là dall’annosa questione dell’accordo sul nucleare iraniano, il cui andamento ha esacerbato i rapporti tra i due paesi. L’establishment israeliano è molto preoccupato per i possibili esiti dei negoziati in quanto nessuno dei potenziali risultati sarebbe interamente positivo per Israele. Anzi, il mancato raggiungimento di un accordo sarebbe il meno dannoso.
In questo caso, infatti, Israele e Stati Uniti non avrebbero alternative politiche al di fuori dell’applicazione di sanzioni, che però appunto non si sono rivelate efficaci nel contenere i progressi iraniani in ambito nucleare; nell’ipotesi quindi di un deterioramento della situazione, emergerebbe la necessità di assumere una linea di azione più decisa per affrontare la minaccia del nucleare iraniano, che però Gerusalemme e Washington non percepiscono con la stessa urgenza. Da parte dell’amministrazione Biden non vi è infatti alcuna volontà di prendere in considerazione una possibile soluzione militare; in questa prospettiva Israele potrebbe ritrovarsi da solo nell’affrontare l’intensificarsi di una minaccia decisamente di ampia portata.
L’amministrazione Biden ha dato segnale di voler ribadire il supporto americano verso Israele approvando l’aumento di un miliardo di dollari per gli aiuti militari che erano stati bloccati dall’operazione “Guardiano delle mura” a Gaza dello scorso maggio. Queste risorse sono necessarie per garantire la realizzazione degli interessi strategici essenziali israeliani, ovvero: il mantenimento dell’ingaggio continuo in micro operazioni contro il programma nucleare iraniano e della libertà di operare nella regione. Specialmente in Siria e in Libano, dove la presenza militare iraniana si fa più presente. Teheran persiste nel suo sforzo multidimensionale per consolidare la sua influenza in questi due stati, trasferendo armi a Hezbollah nel sud del Libano e rafforzando le infrastrutture militari nell’offensiva contro Israele in Siria. In questo teatro, la risposta israeliana si traduce in una prolungata campagna fatta di piccole operazioni contro postazioni iraniane e milizie affiliate: l’obiettivo è quello di riuscire prima o poi a spingere fuori l’Iran dalla Siria.
A rendere più complicato il dilemma di sicurezza israeliano sono le ripercussioni sull’altro importante fronte strategico: quello palestinese. La situazione di questo teatro è stata profondamente influenzata dagli eventi accaduti nell’ultimo anno e mezzo, quali: la cancellazione delle elezioni palestinesi, l’inizio del mandato di Joe Biden alla Casa Bianca, l’operazione “Guardiano delle mura” a Gaza e il cambio di governo in Israele. Se da una parte, infatti, i riflettori sono tornati a puntare sulla questione palestinese, dall’altro vediamo come Israele stia adottando il paradigma della “riduzione del conflitto”, che si basa sul ricorso a misure per migliorare la qualità della vita dei palestinesi, ma senza intraprendere un vero e proprio dialogo politico. Inoltre, l’Autorità palestinese continua a sgretolarsi e ha raggiunto un picco di estrema fragilità, tanto da avere serie difficoltà nell’adempiere alle funzioni di mantenimento della sicurezza nei Territori e di garantire l’integrità del tessuto sociale palestinese.
Il governo israeliano, ben consapevole della situazione finanziaria precaria di Ramallah (causata dalla sua lentezza sulle riforme, il suo allontanamento dagli stati donatori e dall’elevata percentuale di budget allocato per il sistema di pagamento dei prigionieri e dei martiri che Stati Uniti, Israele e la comunità internazionale hanno già chiesto finisse), sta cercando di evitarne il collasso anticipando le entrate fiscali dell’Autorità nazionale palestinese e intervenendo su commissioni di transazione e debiti accumulati.
Questa nuova preoccupazione si aggiunge alla usuale apprensione israeliana verso Gaza, al cui confine si sta vivendo un periodo di relativa tranquillità: Hamas ha bisogno di tempo per riprendersi dall’operazione militare israeliana del maggio 2021 e, soprattutto, non vuole mettere a rischio la ricostruzione e la ripresa economica di Gaza dovuta all’allentamento delle restrizioni da parte di Israele ed Egitto. Il ministro degli Esteri Yair Lapid sta, infatti, portando avanti il suo “piano economico per la sicurezza”2, sottolineando la volontà di perseguire una strategia complementare agli sforzi per ostacolare il build-up militare di Hamas.
Il movimento islamico sta conducendo però un gioco molto ambiguo: mentre vuole la quiete a Gaza, Hamas ha giocato un ruolo molto importante nei recenti scontri sull’Haram al-Sharif, fomentando le violenze non solo a Gerusalemme ma anche nella Cisgiordania, dove l’Idf e le forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese hanno arrestato cellule di Hamas sparse nei Territori. Sembrerebbe esserci stato un cambio di strategia: Hamas ha capito che la priorità di Israele è mantenere tranquillo il confine con Gaza, e di conseguenza ha spostato l’epicentro dello scontro a Gerusalemme e in Cisgiordania (o anche nelle città miste israeliane come accaduto l’anno scorso).
Questo possibile cambiamento di rotta conferma ulteriormente il bisogno per Israele di ripensare alla sua strategia che concepisce Gaza come un’entità completamente separata; non solo, deve maturare la più ampia consapevolezza che la politica adottata negli ultimi dieci anni, basata sulla compartimentalizzazione dei tre diversi fronti (Cisgiordania, Gaza e cittadini arabi israeliani) non si è rivelata uno strumento efficace per leggere e gestire la realtà sul campo. La formulazione delle politiche israeliane nei confronti dei suoi cittadini arabi e dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania non possono più essere scisse e a sé stanti, ma richiedono un approccio integrato e, soprattutto, la questione palestinese non può più essere contenuta dall’illusione del principio della “riduzione del conflitto” perché l’assenza di una soluzione pone una seria minaccia all’identità, alla sicurezza e alle capacità strategiche di Israele.
SOURCES:
[1] “Nir Hasson, Extremists’ Call for Passover Sacrifice on Temple Mount Is a Provocative Ploy”, Haaretz, 14 aprile 2022.
[2] A. Fuchs e G. Lurie, Q&A Plea Bargain Agreements, Israel Democracy Institute, 19 gennaio 2022.