in Beda Romano
Da qualche settimana la diplomazia Ue dispone di una propria unità di crisi, mentre proseguono i negoziati diplomatici in vista della creazione di una forza di intervento rapido nel 2025
3′ di lettura
È con crescente nervosismo che l’establishment europeo attende l’esito delle prossime elezioni americane. Il possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca fa temere il disimpegno della NATO, ovvero il ritiro degli Stati Uniti dall’Europa.
Dietro le dichiarazioni di routine, qualcosa si muove. Da alcune settimane la diplomazia comunitaria dispone di una propria unità di crisi, mentre proseguono le trattative diplomatiche in vista della creazione di una forza di intervento rapido nel 2025.
Sono stati gli avvenimenti afghani di tre anni fa a indurre il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE), il braccio diplomatico europeo, a dotarsi di un’Unità di crisi, come quella della Farnesina dal 1990, e del Quai d’Orsay dal 2008. L’ascesa dei Talebani e la fuga delle truppe NATO dal Paese sono state traumatiche. I funzionari della comunità si erano ritirati in tempo; ma si trattava di aiutare i dipendenti locali a lasciare Kabul, circa 400 in totale, mentre il nuovo governo prendeva il potere nel sangue.
Monitoraggio continuo della polizia e dei servizi segreti
Era il 2021. Da allora i focolai di crisi, con la necessità di proteggere i cittadini europei, si sono moltiplicati: in Ciad e Guinea ancora nel 2021, in Burkina Faso nel 2022, in Niger, Gabon e Sudan nel 2023, senza dimenticare la guerra in Gaza, scoppiata lo scorso autunno. Finora sono 2.500 le persone evacuate dalla Striscia, tra cittadini comunitari e cittadini di Paesi terzi. In Afghanistan era pronto un piano di evacuazione, non in Sudan, dove la guerra civile era inaspettata.
Nella sede del SEAE, accanto all’ufficio dell’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Josep Borrell, 70 persone monitorano la scena internazionale 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana. Sono poliziotti, agenti dei servizi segreti, soldati. Il loro compito è organizzare la sicurezza delle delegazioni all’estero, preparare piani di evacuazione consolare, analizzare la situazione mondiale, principalmente sulla base di fonti pubbliche. Tre volte al giorno preparano una relazione da inviare ai leader del SEAE.
“Altri 70 funzionari sono distribuiti nelle delegazioni dove la situazione è più delicata”, spiega Francisco Fontan, funzionario spagnolo che dirige l’Unità di Crisi (in inglese, Crisis Response Center). L’Unione Europea conta attualmente quasi 150 ambasciate all’estero. Nei paesi a rischio, un funzionario è responsabile di garantire la sicurezza dei diplomatici in loco, ma è anche chiamato a inviare a Bruxelles note aggiornate sulla situazione in loco.
Verso una forza europea di intervento rapido
Quando scoppia una crisi è necessario organizzare una missione di evacuazione (conosciuta con l’acronimo Neo, operazione di evacuazione dei non combattenti). «Per ora il nostro lavoro è coordinare la reazione dei Paesi membri, che in questo momento hanno la responsabilità di agire sul terreno», precisa Fontan. La competenza, infatti, resta nazionale, ma potrebbe presto diventare europea. I Ventisette stanno negoziando la creazione di una forza di intervento rapido di 5.000 uomini, chiamati ad agire in situazioni di crisi.
Un primo esercizio ha già avuto luogo in Spagna, ma i negoziati restano carichi di difficoltà. Secondo le informazioni raccolte a margine dei negoziati, le questioni principali riguardano il bilancio della nuova forza militare e l’eventuale coordinamento con la NATO. Nel frattempo, lunedì prossimo i Ventisette dovrebbero dare l’atteso via libera a un’operazione navale nel Mar Rosso per proteggere le navi mercantili europee dagli attacchi degli Houthi.
Le missioni europee nel mondo saliranno quindi a dieci, a conferma della crescente presenza militare dell’Unione Europea. Ultimo dato, simbolico ma forse non banale: l’Alto Rappresentante organizza spesso incontri con i suoi collaboratori in una delle stanze dell’Unità di Crisi, tappezzata di schermi televisivi e mappe interattive, lo sguardo rivolto ai potenziali focolai di crisi: dal Sahel a Taiwan, dall’Ucraina al Medio Oriente.
-
Beda Romano
Corrispondente