L’Italia investirà un miliardo di euro per creare la sua intelligenza artificiale. Esso ha annunciato il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, spiegando che la cifra messa sul tavolo grazie a Cdp Venture Capital, attraverso un nuovo fondo di investimento dedicato alla tecnologia ‘più calda’ del momento e l’utilizzo di fondi di investimento già attivi e che coinvolgono l’AI, come dimostrato dall’approvazione da parte dell’Unione Europea dell’AI Act, la prima legge al mondo sul tema. Tornando ai fatti interni, la notizia annunciata dal Premier soddisfa la comunità di ricercatori che studia pregi e difetti di una tecnologia diventata improvvisamente nota a tutti ma che in realtà racchiude al suo interno molteplici anime e potenzialità ancora tutte da scoprire. «L’intelligenza artificiale può diventare la leva per le aziende, per diversi settori industriali e per il Paese»spiega Rita Cucchiaraprofessore ordinario di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni e direttore scientifico del laboratorio AImageLab del Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari” dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Partiamo dalla base: un miliardo di euro per l’Intelligenza Artificiale e per creare un percorso italiano all’AI. Da esperto in materia, cosa significa questa notizia?
«Come rappresentante della comunità di ricerca che si occupa di AI, sono estremamente felice per una notizia importante, perché indica che il governo italiano è consapevole che questi strumenti sono importanti, ma che non sono da demonizzare, quindi solo da bloccare o controllo, né una chimera di ricerca, bensì soluzioni mature che possano rappresentare una leva per l’economia del Paese ma anche per la gestione del welfare del Paese. Quindi l’attenzione del governo, considerando che dallo scorso ottobre stiamo lavorando alla strategia italiana sull’AI, significa che c’è la volontà e la possibilità di ottenere ottimi risultati, e credo che l’Italia possa riuscire in questo obiettivo, perché le competenze ci sono e ora ci sono anche finanziamenti adeguati».
Volendo fare una road map per l’utilizzo dei fondi messi sul tavolo, quale potrebbe essere il primo punto da cui partire?
«La premessa è che l’intelligenza artificiale è un ombrello che racchiude molte tecnologie, la cui punta dell’iceberg più conosciuta è la gestione dei linguaggi, ovvero i Grandi Modelli Linguistici che oggi sono sulla bocca di tutti. In realtà c’è molto di più, dalla gestione dei dati sensoriali per l’ambiente ai dati visivi per un gran numero di applicazioni, che vanno dalla medicina all’industria. In questo senso mi auguro che i fondi annunciati vengano utilizzati in ogni modo, in particolare per produrre intelligenza artificiale in Italia, come ha confermato Alessio Butti, sottosegretario di Stato con delega all’Innovazione, che già all’inizio della nostra collaborazione lo aveva chiarito obbiettivo. In questo momento l’Italia non può restare indietro, ma deve sviluppare tecnologie AI, per le quali servono aziende informatiche capaci di farlo e collaborazione tra queste ultime ed esperti del settore finanziario, medico e vari altri settori del mondo. interesse. L’intelligenza artificiale potrebbe quindi diventare una leva non solo per le aziende IT ma anche per quelle attive in altri ambiti, che ne trarrebbero automaticamente beneficio. Così come le startup emergenti legate all’AI, che sono tante e che vanno sostenute per consolidarsi ed evitare che vengano vendute all’estero, tenendo presente che oltre a loro ci sono tante aziende serie già in grado di contribuire allo sviluppo di IA italiana».
Rita Cucchiara
Quando ci sono tanti soldi in gioco bisogna pensare anche a cosa non fare?
«Accade spesso che quando una tecnologia diventa improvvisamente popolare, si generano credenze popolari che portano alla proliferazione di corsi per diventare esperti, o sedicenti guru che spacciano soluzioni facili, o ancora aziende che non hanno capito la portata del cambiamento e si affidano su chi non ha le competenze adeguate per svolgere determinati lavori. Come accadeva fino a 10-15 anni fa per sviluppare un’applicazione o un sito web. Serve quindi attenzione nella ricerca di professionalità e investimenti per il machine learning, per le GPU molto costose ma anche il giusto compenso per i nostri tecnici. Non possiamo pensare di continuare a pagare poco chi ha determinate competenze, perché altrimenti va all’estero. Credo che il governo sia sensibile a questo aspetto, come dimostrano le misure adottate per il rientro dei cervelli in fuga per riportarli e trattenerli sia nell’ambito della ricerca universitaria che in quello lavorativo. Anche perché per un Paese in grave declino demografico perdere le menti più brillanti nella cui istruzione si è investito tempo e denaro equivale a perdere la spinta verso il futuro. Confido che questi siano concetti chiari al governo, per questo penso che l’intenzione sia quella di finanziare le imprese italiane affinché possano creare tecnologia italiana, senza dipendere dai software dei paesi asiatici o della Germania. A questo si collega un altro ambito cruciale di interesse per l’Italia, ovvero la digitalizzazione intelligente della Pubblica Amministrazione: sono convinto che ci saranno investimenti per creare software in grado di migliorare e rendere più efficiente l’accesso alla PA sia per i cittadini, sia per gli esperti interni chiamati per gestire enormi quantità di dati».
Nell’ottica di costruire un piano industriale italiano e una visione per l’AI, ci sono esempi a cui guardare in Europa o nel resto del mondo?
«L’intelligenza artificiale esiste da un po’ ma ha avuto una forte accelerazione nell’ultimo decennio, quindi è una tecnologia giovane che non offre molte best practice ed errori. Vediamo però cosa ha fatto la Finlandia, che sta portando avanti una formazione capillare su questi temi per combattere paure e disinformazione attraverso la conoscenza. Un altro esempio è la Germania, che da anni investe per creare cattedre specifiche in AI, in modo da trattenere i professionisti più qualificati del settore. La priorità è costruire un futuro a lungo termine per creare qualcosa di solido, con sullo sfondo il più grande esempio della Silicon Valley, dove un rilevante ecosistema di università e imprese legate al territorio ha permesso la nascita di multinazionali capaci di creare e gestire il innovazione».
Con il loro enorme potere finanziario e la relativa influenza, le aziende iconiche della Silicon Valley non rappresentano un pericolo per lo sviluppo di una forte alternativa per l’intelligenza artificiale in Europa, anche considerando quanto noi europei siamo dipendenti dai servizi della big tech?
«Questo è un dato di fatto perché, solo per fare un paio di esempi, non possiamo vivere senza Google Maps, né senza ricorrere agli strumenti di Google e Microsoft quando utilizziamo un dispositivo elettronico. Ma in questo momento serve la consapevolezza della collaborazione, perché non possiamo chiudere la porta alle partnership con le grandi aziende, come sta accadendo in Francia, dove si stanno sviluppando laboratori congiunti su larga scala, mantenendo allo stesso tempo i nostri capisaldi in termini di democrazia , fiscalità, privacy e tutto ciò che ci contraddistingue. Sarebbe questa una soluzione per collaborare senza totale asservimento a strumenti prodotti altrove ma utilizzati e modificati nel nostro Paese per creare conoscenza, consapevoli che l’Italia dovrà produrre soluzioni di intelligenza artificiale ad ampio spettro nel futuro a breve termine. Il punto è che l’Italia da sola non fa nulla ma può fare molto all’interno dell’Unione Europea. Una collaborazione internazionale a livello europeo potrebbe rappresentare la svolta: sono molti i progetti di collaborazione europei che negli ultimi 2-3 anni coinvolgono università italiane e università europee e stanno ottenendo ottimi riscontri. Un esempio è Elia, un progetto di ricerca sull’intelligenza artificiale e lo sviluppo sostenibile del pianeta guidato dall’Università di Trento e finanziato con fondi europei. Non c’è dubbio che ci sia bisogno dell’intelligence italiana, ma credo e spero in un progetto coordinato a livello europeo».
Se esiste il capitale umano e finanziario, l’Italia può aspirare a diventare un hub tecnologico?
«Non possiamo permetterci di non fare del nostro Paese un grande hub tecnologico, diffuso da nord a sud. L’Italia non può abdicare alla sovranità tecnologica di un settore così importante, che grava su tanti ambiti produttivi e sociali».