Pubblichiamo di seguito le versioni in italiano e in inglese del discorso di ringraziamento dell’ex presidente del Consiglio Mario Draghi per il Premio Europeo Carlo V, che ha ricevuto oggi dal re Felipe VI di Spagna, in una cerimonia al monastero di San Jeronimo de Yuste.
Il testo integrale del discorso
Vorrei iniziare ringraziando Sua Maestà il Re Felipe VI per questa cerimonia, insieme a tutti coloro che vi hanno contribuito. In particolare quest’ultimo momento è stato davvero commovente, vi ringrazio tutti: è una cerimonia fantastica. Spesso per indicare un’ospitalità straordinaria si parla di «ospitalità spagnola». Ed è davvero così. È un grande onore per me ricevere il Premio europeo Carlos V, in un luogo così ricco di storia. Questo monastero, in quanto ultima dimora di Carlo V, richiama la lunga e ricca storia dell’Europa, e insieme il plurisecolare processo di costruzione dell’unità europea. Nel corso degli anni, il nostro continente è diventato più vecchio, più ricco e più vicino, con un mercato unico di 445 milioni di consumatori. Ma oggi ci troviamo di fronte a questioni fondamentali per il nostro futuro. Man mano che le nostre società invecchiano, crescono anche le esigenze del nostro modello sociale. Al contempo, lasciatemelo dire in apertura di questo discorso, per noi europei il mantenimento di livelli elevati di protezione sociale e ridistribuzione è un punto non negoziabile.
Dobbiamo anche far fronte a esigenze nuove: adeguarci ai rapidi cambiamenti tecnologici, aumentare la capacità di difesa e realizzare la transizione verde.
Nel frattempo, il paradigma che finora ha sostenuto i nostri obiettivi condivisi va scomparendo. L’era del gas importato dalla Russia e del commercio mondiale aperto sta svanendo. Per far fronte a tutti questi cambiamenti, dunque, avremo bisogno di crescere più velocemente e meglio. E la strada maestra per conseguire una crescita più rapida è aumentare la nostra produttività. La crescita della produttività dell’Europa va rallentando da tempo, anzi da molto tempo. Dall’inizio degli anni 2000, il PIL pro capite corretto per i prezzi interni è inferiore di circa un terzo rispetto a quello degli Stati Uniti, e il 70% circa di questo divario è dovuto alla minore produttività. La differenza nella crescita della produttività tra le due economie è dovuta in massima parte al settore tecnologico e più in generale alla digitalizzazione. Se escludessimo il settore tecnologico, la crescita della produttività dell’UE negli ultimi vent’anni sarebbe pari a quella degli USA. Ma il divario potrebbe ampliarsi ulteriormente con il rapido sviluppo e con la diffusione dell’intelligenza artificiale. Circa il 70% dei modelli di intelligenza artificiale cosiddetti foundational è sviluppato negli Stati Uniti, e tre aziende statunitensi rappresentano da sole il 65% del mercato globale del cloud computing. Per iniziare a colmare questo divario è necessaria una serie di interventi di policy.
Prima di tutto, dobbiamo ridurre il prezzo dell’energia. Gli utilizzatori industriali di energia in Europa si trovano attualmente in una condizione di grave svantaggio competitivo rispetto ai loro omologhi negli USA – e non solo negli USA – con prezzi dell’elettricità due o tre volte più alti.
Questo differenziale di prezzo è trainato principalmente dal nostro ritardo nell’installazione di nuova capacità di energia pulita e dalla mancanza di risorse naturali, così come dal fatto che, pur essendo l’Unione il più grande acquirente al mondo di gas naturale, il nostro potere di contrattazione collettiva resta limitato. Ma è anche causato da alcuni problemi fondamentali del nostro mercato interno dell’energia. Soffriamo di investimenti infrastrutturali lenti e non ottimali, sul fronte sia delle energie rinnovabili che delle reti. Reti sottosviluppate si traducono nell’incapacità di soddisfare la domanda energetica anche in presenza di surplus in alcune parti dell’UE.
Le nostre regole di mercato non disaccoppiano del tutto il prezzo dell’energia rinnovabile e nucleare dai prezzi dei combustibili fossili, più elevati e volatili, il che impedisce alle industrie e alle famiglie di cogliere in bolletta tutti i benefici dell’energia pulita. Nel tempo, la tassazione dell’energia è diventata un’importante fonte di entrate di bilancio, contribuendo all’aumento dei prezzi al dettaglio. A loro volta, prezzi elevati si traducono in minori investimenti in Europa: l’anno scorso, circa il 60% delle aziende europee ha indicato nei prezzi dell’energia un grave ostacolo agli investimenti, oltre 20 punti percentuali in più rispetto a quanto indicato dalle aziende statunitensi. Gli alti prezzi dell’energia interferiscono anche con la digitalizzazione della produzione, poiché l’intelligenza artificiale è altamente energivora. L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che l’elettricità consumata dai data center raddoppierà a livello globale entro il 2026 – quindi, nel giro di due anni – per un ammontare approssimativamente pari all’intero fabbisogno energetico della Germania. Una maggiore produttività, dunque, dipende dalla costruzione di un vero mercato europeo dell’energia. In secondo luogo, dobbiamo ripensare l’ambiente dell’innovazione in Europa. In percentuale del PIL, le imprese europee spendono circa la metà di quelle statunitensi in ricerca e innovazione (R&I), il che si traduce in un deficit di investimenti pari a circa 270 miliardi di euro l’anno. Anche il raccordo tra ricerca di base e commercializzazione delle idee è molto più debole. Tra i primi dieci cluster dell’innovazione a livello mondiale nemmeno uno è europeo e le nostre università faticano a trattenere i talenti migliori. L’UE deve fare della ricerca e dell’innovazione una priorità collettiva. In un’agenda comune potrebbero rientrare comprendere un sostegno rafforzato alla ricerca fondamentale, incentrato sull’eccellenza accademica, una maggiore attenzione all’innovazione disruptive e una maggiore capacità di sostenere le start-up e aiutarle a crescere.
Dobbiamo anche creare le condizioni perché l’innovazione si diffonda più rapidamente nell’economia. I fattori chiave in questo caso sono due: consentire alle imprese europee di raggiungere una scala ottimale, mettendole in condizione di poter investire in nuove tecnologie, e riqualificare i lavoratori europei, affinché possano padroneggiare queste tecnologie. La possibilità di raggiungere una scala adeguata presuppone l’eliminazione degli ultimi ostacoli all’attività transfrontaliera all’interno del mercato unico, in particolare quelli che ostacolano la diffusione digitale. Ad esempio, il cloud computing nella pubblica amministrazione deve essere inquadrato da un unico insieme di regole. E le politiche sulla concorrenza devono facilitare la scala ponderando i criteri di innovazione e resilienza in sintonia con l’evoluzione del mercato e i contesti geopolitici, evitando contemporaneamente un’eccessiva concentrazione del mercato, che fa salire i prezzi al consumo e riduce la qualità del servizio. Parallelamente, la riqualificazione della nostra forza lavoro richiederà il rafforzamento dei sistemi di istruzione e formazione, incoraggiando l’apprendimento degli adulti e facilitando l’ingresso di lavoratori altamente qualificati provenienti da paesi terzi. L’esempio della Svezia è molto interessante. La produttività del settore tecnologico svedese – e anche la sua economia complessiva – è più del doppio della media dell’UE, il che dimostra che progresso tecnologico e un modello sociale forte sono non solo compatibili, ma anche auto-rafforzanti quando si concentrano sulla riqualificazione e sulle competenze. Il finanziamento di queste varie esigenze di investimento sarà una sfida significativa e comporterà la necessità di ripensare il modo in cui impieghiamo i capitali sia pubblici che privati.
Le nostre regole di mercato non disaccoppiano del tutto il prezzo dell’energia rinnovabile e nucleare dai prezzi dei combustibili fossili, più elevati e volatili, il che impedisce alle industrie e alle famiglie di cogliere in bolletta tutti i benefici dell’energia pulita. Nel tempo, la tassazione dell’energia è diventata un’importante fonte di entrate di bilancio, contribuendo all’aumento dei prezzi al dettaglio. A loro volta, prezzi elevati si traducono in minori investimenti in Europa: l’anno scorso, circa il 60% delle aziende europee ha indicato nei prezzi dell’energia un grave ostacolo agli investimenti, oltre 20 punti percentuali in più rispetto a quanto indicato dalle aziende statunitensi. Gli alti prezzi dell’energia interferiscono anche con la digitalizzazione della produzione, poiché l’intelligenza artificiale è altamente energivora. L’Agenzia internazionale per l’energia prevede che l’elettricità consumata dai data center raddoppierà a livello globale entro il 2026 – quindi, nel giro di due anni – per un ammontare approssimativamente pari all’intero fabbisogno energetico della Germania.
Una maggiore produttività, dunque, dipende dalla costruzione di un vero mercato europeo dell’energia.
Rispetto agli Stati Uniti, non avere un bilancio federale ci pone in una condizione di svantaggio. Ad esempio, le attività di ricerca e innovazione finanziate con fondi pubblici rappresentano una percentuale del PIL sostanzialmente simile in entrambe le regioni, intorno allo 0,7-0,8%, ma negli Stati Uniti la stragrande maggioranza della spesa avviene a livello federale, garantendo che i fondi pubblici affluiscano in modo efficiente verso le priorità nazionali.
In Europa, invece, gli strumenti di finanziamento sono ripartiti tra l’UE e i livelli nazionali – la spesa per ricerca e innovazione è europea solo per un decimo –con poche tracce di coordinamento e definizione di priorità. Inoltre, il processo decisionale per i progetti comuni comporta in genere un iter legislativo lungo e laborioso, nel quale intervengono molteplici gli attori con potere di veto.
Al contempo, i successivi livelli di regolamentazione si sono tradotti in oneri per gli investimenti a lungo termine, come riferito dal 61% delle imprese dell’UE lo scorso anno.
Insomma, i margini di miglioramento sono notevoli, anche semplicemente a partire dalla definizione priorità più chiare, da una razionalizzazione della regolamentazione e da un miglior coordinamento tra i diversi strumenti di finanziamento.
Detto ciò, anche rendere più efficace la pubblica spesa non sarà di per sé sufficiente. La transizione verde e quella digitale comportano esigenze di finanziamento massicce che, vista la limitatezza dello spazio fiscale in Europa – sia a livello nazionale che, almeno finora, a livello di UE – dovranno essere soddisfatte principalmente dal settore privato.
Avremo quindi bisogno di attivare anche il risparmio privato su una scala senza precedenti, e ben al di là di quanto può offrire ad oggi il settore bancario. La via maestra per mobilitare i fondi necessari sarà approfondire i nostri mercati del capitale di rischio, del capitale azionario e delle obbligazioni. E nei settori in cui gli investimenti pubblici hanno grandi moltiplicatori, come la spesa per le reti o in ricerca e innovazione, è probabile che la maggiore emissione di debito pubblico si finanzi da sola. Semplificare i progetti europei di interesse comune e ampliarne l’ambito di applicazione li renderebbe uno strumento efficace per aumentare gli investimenti in aree critiche. Per quanto riguarda i finanziamenti comuni a livello europeo, sapete tutti come la penso, quindi non c’è bisogno di ribadirlo. Trarremmo enormi benefici da una qualche forma di finanziamento comune— ma non voglio ripetere oggi cose che ho detto molte volte in passato.
Il paradigma che in passato ci ha portato prosperità era congegnato per un mondo di stabilità geopolitica, e di conseguenza le considerazioni di sicurezza nazionale avevano un ruolo marginale nelle decisioni economiche. Ma le relazioni geopolitiche si stanno deteriorando. Questo cambiamento richiede all’Europa di adottare un approccio fondamentalmente diverso alla sua capacità industriale in settori strategici come la difesa, lo spazio, i materiali critici e i componenti dei prodotti farmaceutici. Ci impone inoltre di ridurre le nostre dipendenze dai paesi di cui non possiamo più fidarci. La prima cosa di cui abbiamo bisogno, quindi, è una valutazione comune dei rischi geopolitici che dobbiamo affrontare, condivisa tra gli Stati membri e in grado di guidare la nostra risposta. È un requisito non da poco, ma è all’origine di tutto. Avremo poi bisogno di sviluppare una vera e propria “politica economica estera” – o, come si usa dire oggi, statecraft – che coordini gli accordi commerciali preferenziali e gli investimenti diretti con le nazioni ricche di risorse, la costituzione di scorte in specifiche aree critiche e la creazione di partenariati industriali per garantire la catena di approvvigionamento delle tecnologie chiave. Per i settori strategici, le stesse misure che ho già descritto in relazione all’innovazione, alla scala e alle competenze saranno di particolare utilità. Ma poiché in alcuni di questi settori muoviamo da anni e anni di sottoinvestimento, occorrerà anche un approccio coordinato alla domanda. Affinché le imprese incrementino gli investimenti e accrescano la capacità, l’Europa dovrà non solo aumentare il livello della domanda attraverso una spesa maggiore, ma anche garantire che questa spesa sia concentrata all’interno dei nostri confini e che sia aggregata a livello dell’UE. Il modo più efficiente per generare questa domanda sarebbe tramite l’aumento della spesa comune europea. In assenza di un approccio centralizzato, però, molto si potrà ottenere con un più stretto coordinamento delle politiche in materia di appalti pubblici, e con l’applicazione di requisiti di contenuto locale più espliciti per merci e componenti prodotte nell’UE.
Questa concentrazione e aggregazione della domanda accrescerà anche l’efficacia della spesa pubblica, riducendo le duplicazioni e aumentando l’interoperabilità, in particolare per le attrezzature militari, e rifletterà le politiche oggi attuate dai nostri rivali geopolitici.
Nel paradigma che ci ha portato prosperità in passato, il commercio mondiale era governato da regole multilaterali. Ora però queste regole stanno diventando sempre meno vincolanti e le maggiori economie operano in modo sempre più unilaterale. Non vogliamo diventare protezionisti in Europa, ma non possiamo essere passivi se le azioni degli altri minacciano la nostra prosperità. Anche le recenti decisioni degli Stati Uniti sull’imposizione di dazi alla Cina hanno implicazioni per la nostra economia, per il tramite del riorientamento delle esportazioni. Per noi la sfida risiede nel fatto che, rispetto agli Stati Uniti, siamo più vulnerabili sia a un’eventuale inazione sul commercio, sia a ritorsioni se dovessimo agire. Il settore manifatturiero in Europa impiega un numero di persone pari a due volte e mezzo quello degli Stati Uniti. E più di un terzo del nostro PIL manifatturiero viene assorbito al di fuori dell’UE, rispetto a circa un quinto per gli Stati Uniti.
Ad ogni modo, ora ci troviamo di fronte anche a un’ondata di importazioni cinesi più economiche e talvolta più avanzate dal punto di vista tecnologico.
Si prevede che, al più tardi entro il 2030, la capacità produttiva annuale della Cina per il fotovoltaico solare sarà pari al doppio della domanda globale, e per le celle per batterie sarà almeno pari al livello della domanda globale.
Fintantoché questa notevole crescita dell’offerta è il risultato di autentici miglioramenti della produttività e dell’innovazione, allora è un bene per noi, è un bene per l’Europa. Tuttavia è ampiamente provato che parte dei progressi della Cina è dovuta ai considerevoli sussidi sui costi, al protezionismo commerciale e alla soppressione della domanda, e che questa stessa parte porterà a una riduzione dell’occupazione per le nostre economie. Secondo una stima prudente, nel 2019 la Cina ha speso per la politica industriale circa tre volte più della Germania o della Francia in termini di quota del PIL, e, in termini di dollari corretti per il potere d’acquisto, ha speso circa dieci volte più dei due paesi messi insieme.
Nell’ambito di questa più ampia strategia industriale, la crescita dei salari cinesi nel tempo non ha tenuto il passo della crescita della produttività, mentre i tassi di risparmio rimangono elevati, lasciando i consumi delle famiglie solo al 44% del PIL.
La prima risposta europea al mutare delle regole del commercio mondiale dovrebbe essere quella di cercare di riparare quanto prima i danni subiti dall’ordine commerciale multilaterale, incoraggiando tutti i partner disponibili a impegnarsi nuovamente per un commercio fondato sulle regole. Come sapete, in un ambito come questo per ballare il tango bisogna essere in due, e non sono sicuro che gli altri vogliano ballare con noi.
La seconda risposta dovrebbe essere quella di incoraggiare gli investimenti diretti dall’ verso l’interno, in modo che i posti di lavoro nel settore manifatturiero rimangano in Europa. La terza risposta dovrebbe consistere nel ricorso a sovvenzioni e dazi per compensare gli ingiusti vantaggi creati dalle politiche industriali e dalle svalutazioni dei tassi di cambio reali all’estero. Ma se ci imbarchiamo su questa strada, dobbiamo farlo nel contesto di un approccio generale che sia pragmatico, prudente e coerente.
L’uso di dazi e sovvenzioni dovrebbe essere fondato su considerazioni di principio e coerente con l’obiettivo di massimizzare la crescita della nostra produttività. Ciò significa distinguere la vera innovazione e il vero miglioramento della produttività all’estero dalla concorrenza sleale e dalla soppressione della domanda. Bisognerà anche evitare di creare incentivi perversi in grado di danneggiare l’industria europea. I dazi devono quindi essere oggetto di una valutazione coerente lungo tutte le fasi del ciclo produttivo ed essere compatibili con gli incentivi, soprattutto per non indurre la delocalizzazione delle nostre industrie.
E naturalmente i dazi devono essere controbilanciati dagli interessi dei consumatori. È possibile che vi siano alcune industrie in cui i produttori nazionali sono ormai rimasti talmente indietro che rendere le importazioni più costose introducendo dazi non farebbe altro che zavorrare di ulteriori costi l’economia. La relazione alla Presidente della Commissione europea delineerà una politica industriale europea in grado di realizzare gli obiettivi fondamentali dei cittadini europei. Questa politica industriale mirerà principalmente ad accrescere la produttività, salvaguardando la competitività delle nostre industrie nel mondo e la concorrenza in Europa.
Mirerà a continuare la decarbonizzazione della nostra economia, in modo tale da portare a una riduzione dei prezzi dell’energia e a una maggiore sicurezza energetica. Mirerà a riorientare la nostra economia in un mondo meno stabile, in particolare sviluppando una capacità industriale di difesa e una politica commerciale in grado di soddisfare le nostre esigenze geopolitiche, riducendo al contempo le dipendenze geopolitiche dai paesi su cui non possiamo più fare affidamento. All’inizio di questo discorso ho detto che il mantenimento di livelli elevati di protezione sociale e ridistribuzione è un punto non negoziabile. Nel concludere, voglio ribadire che la lotta all’esclusione sociale sarà fondamentale non solo per preservare i valori di equità sociale della nostra Unione, ma anche per far sì che il nostro cammino verso una società più tecnologica si compia con successo.
La principale causa delle disuguaglianze di reddito è la disoccupazione. Storicamente, le politiche macroeconomiche – se ben concepite, naturalmente – hanno rappresentato la risposta. Allo stato attuale, e più in generale, le politiche del mercato del lavoro e una risposta adeguata alla concorrenza sleale dall’estero sono ugualmente essenziali. E questa politica industriale, integrandosi con il nostro sistema di sicurezza sociale, rappresenterà il fondamento dell’inclusione sociale in questa epoca di profondi cambiamenti tecnologici. Queste politiche richiederanno decisioni urgenti, perché il ritmo dei cambiamenti tecnologici e climatici sta accelerando e siamo sempre più esposti al deterioramento delle relazioni internazionali. Queste decisioni saranno anche importanti dal punto di vista politico e finanziario. E potrebbero anche richiedere un livello di cooperazione e coordinamento tra gli Stati membri dell’Unione europea ancora mai sperimentato. Oggi questo passo sembra scoraggiante. Eppure confido che avremo la determinazione, la responsabilità e la solidarietà necessarie per affrontarlo – per difendere la nostra occupazione, il nostro clima, i nostri valori di equità e inclusione sociale, la nostra indipendenza.
Grazie.
English version
I would like to begin by thanking His Majesty King Felipe VI for his exceptionally kind words. It is a great honour for me to receive the Carlos V European Award – and in such a historic setting. This monastery, as the final resting place of the Carlos V, harks back to the long and rich history of Europe, as well as the centuries long process of building European unity. Over the years, our continent has grown older, wealthier and closer, with a single market of 445 million consumers. But today we face fundamental questions over our future.
As our societies age, demands on our social model are increasing. At the same time, for Europeans maintaining high levels of social protection and redistribution is non-negotiable. We are also facing new needs: adjusting to rapid technological change, increasing defence capability and carrying out the green transition. And all the while, the previous paradigm which sustained our shared objectives is disappearing. The era of imported gas from Russia and open world trade is fading. So, if we are to cope with all these changes, we will need to grow faster and better. And the main way to achieve faster growth is to increase our productivity.
Europe’s productivity growth has been slowing for some time. Since the early 2000s, per capita GDP at PPP (i.e. adjusted for internal prices) has been about one third lower than the US – and around 70% of this gap is explained by lower productivity. The difference in productivity growth between the two economies is predominantly down to the tech sector and digitalisation more generally. If we were to exclude the tech sector, EU productivity growth over the past twenty years would be at par with that of the US. But the gap could widen further with the rapid development and diffusion of artificial intelligence. Around 70% of foundational AI models are being developed in the US and just three US companies account for 65% of the global cloud computing market. A series of policy actions are necessary to start closing this gap.
First of all, we need to reduce the price of energy. Industrial users of energy in Europe currently face a major competitive disadvantage compared with their US peers, with prices that are 2-3 times higher for electricity. This price differential is primarily driven by our delay in installing new clean energy capacity and lack of natural resources, as well as our limited collective bargaining power despite being the world’s largest buyer of natural gas. But it also caused by fundamental issues with our internal energy market.
We suffer from slow and suboptimal infrastructure investment, both for renewables and grids. Underdeveloped grids imply that we cannot match energy demand even when there are surpluses in some parts of the EU.
We have market rules that do not fully decouple the price of renewable and nuclear energy from higher and more volatile fossil fuel prices, preventing industries and households from capturing the full benefits of clean energy in their bills. And over time energy taxation has become an important source of budget revenues, contributing to higher retail prices.
These high prices are leading to lower investment in Europe: last year, around 60% of European companies said energy prices were a major impediment to investment – more than 20 percentage points higher than the response of US companies.
And they also stand in the way of making production more digital, as AI is highly energy intensive. The International Energy Agency forecasts that electricity consumed by data centres will double globally by 2026, an increase roughly equal to the whole electricity demand of Germany.
So, higher productivity hinges on building a genuine European energy market. Next, we need to re-think the innovation environment in Europe. As a share of GDP, European firms spend about half as much as their US peers on research and innovation (R&I), leading to an investment gap of around €270 billion every year.
The pipeline from fundamental research into commercialisation of ideas is also much weaker. There are no European innovation clusters in the top 10 globally and our universities struggle to retain top talent. The EU therefore needs to set R&I as a collective priority. A common agenda could include reinforced support for fundamental research, centred on academic excellence, an increased focus on disruptive innovation, and a greater capacity to support start-ups and help them grow. We also need to create the conditions for innovation to diffuse faster through the economy. The key factors here are enabling European firms to reach optimal scale, so that they have the capacity to invest in new technology, and reskilling European workers, so that they can master this technology.
Achieving scale requires removing the remaining barriers to cross-border activity within the Single Market, especially those that stand in the way of digital diffusion. As an example, cloud computing in public administration needs to be framed by a single set of rules. And competition policy needs to facilitate scale by weighting innovation and resiliency criteria in tune with the evolving market and geopolitical contexts – while avoiding excessive market concentration that raises consumer prices and lowers quality of service.
At the same time, reskilling our workforce will require strengthening education and training systems, encouraging adult learning and facilitating the entry of highly skilled workers from outside the EU. The example of Sweden – which has a tech sector that is more than twice as productive as the EU average – shows that a strong social model and technological progress are not only compatible, but also self-reinforcing when focused on retraining and skills. Financing these various investment needs will be a significant challenge, and it will require us to rethink how we deploy both public and private capital.
Compared with the US, not having a federal budget puts us at a disadvantage. For example, publicly funded R&I is a similar percentage of GDP in both regions, around 0.7-0.8%, but in the US the vast majority of spending takes place at the federal level, ensuring that public funds flow efficiently towards national priorities. In Europe, by contrast, financing instruments are split between the EU and national levels – just one tenth of R&I spending is European – with little prioritisation or coordination. And decision-making on common projects typically requires a drawn-out legislative process with multiple veto players along the way.
At the same time, successive layers of regulation have created a burden on long-term investment, as reported by 61% of EU companies last year.
So, there is significant scope for improvement simply through setting clearer priorities, streamlining regulation and better coordinating different financing instruments.
That said, even making public spending more effective will not be enough. The financing needs for the green and digital transitions are massive and, with limited fiscal space in Europe both at the national and, at least so far, EU levels, they will have to be mostly provided by the private sector.
So, we will also need to mobilise private savings on unprecedented scale, and far beyond what the banking sector can provide. The main way to marshal the necessary funds will be by deepening our markets for risk capital, equity and bonds.
And in areas where public investment has large multipliers, such as spending on grids or R&I, issuing more public debt is likely to finance itself. Simplifying the European projects of common interest and expanding their scope would make them a successful tool for increasing investment in critical areas.
The paradigm which brought us prosperity in the past was designed for a world of geopolitical stability, which meant that national security considerations played little role in economic decisions. But geopolitical relations are now deteriorating. This shift requires Europe to take a fundamentally different approach to its industrial capacity in strategic sectors like defence, space, critical minerals and parts of pharmaceuticals. It also requires us to reduce our dependencies on countries we can no longer trust. The first thing we need, therefore, is a common assessment of the geopolitical risks we face that is shared across member states and can guide our response.
Then, we will need to develop a genuine “foreign economic policy” – a so-called statecraft – that coordinates preferential trade agreements and direct investment with resource-rich nations, the building up of stockpiles in selected critical areas, and the creation of industrial partnerships to secure the supply chain of key technologies.
For strategic sectors, the same measures I have already described related to innovation, scale and skills will particularly help. But as some of these sectors are starting from years of underinvestment, they will also require a coordinated approach towards demand. For firms to ramp up investment and increase capacity, Europe will need not only to increase the level of demand through higher spending, but also to ensure that it is concentrated within our borders and that it is aggregated at the EU level.
The most efficient way to generate this demand would be through increasing common European spending. But in the absence of such a centralised approach, we can achieve a lot by coordinating public procurement policies more closely and applying more explicit local content requirements for EU-produced products and components.
This demand concentration and aggregation will also increase the efficacy of public spending by reducing duplication and increasing interoperability, especially for military equipment. And it will match the policies that our geopolitical rivals apply. The paradigm which brought us prosperity in the past was also one in which world trade was governed by multilateral rules. But now these rules are becoming less and less binding, and the largest economies are increasingly operating unilaterally.
We do not want to become protectionist in Europe, but we cannot be passive if the actions of others are threatening our prosperity. Even recent US decisions to impose tariffs on China have implications for our economy through the re-direction of exports. The challenge we face is that, compared with the US, we are more vulnerable both to inaction on trade and to retaliation. The manufacturing sector in Europe employs two and half times as many people as in the US. And more than a third of our manufacturing GDP is absorbed outside the EU, compared with around a fifth for the US.
However, we are now facing a wave of cheaper and sometimes more technologically advanced Chinese imports. By 2030 at the latest, China’s annual manufacturing capacity for solar PV is expected to be double the level of global demand and for battery cells it will at least equal the level of global demand. To the extent that this remarkable supply growth is the outcome of genuine productivity improvements and innovation, it is good for Europe. But there is also ample evidence that part of China’s progress owes to sizeable cost subsidies, trade protection and demand suppression, and that part will lead to lower employment for our economy.
According to a conservative estimate, in 2019 China spent around three times as much on industrial policy as Germany or France as a share of GDP, and in dollar terms at PPP, it spent around ten times as much as both countries combined. And as part of this general industrial strategy, Chinese wage growth has not kept up with productivity growth over time while saving rates remain high, leaving household consumption at just 44% of GDP. The first European response to the changed world trade rules should be to strive to repair the damage to the multilateral trading order as much as possible, encouraging all willing partners to re-commit to rules-based trade. The second response should be to encourage inward FDI, so that manufacturing jobs remain in Europe. The third response should be using subsidies and tariffs to offset unfair advantages created by industrial policies and real exchange rate devaluations abroad. But if we embark down this path, it must be as part of a general approach that is pragmatic, cautious and consistent.
The use of tariffs and subsidies should be principle-based and consistent with maximising our productivity growth. That means distinguishing genuine innovation and productivity improvements abroad from unfair competition and demand suppression. It should avoid creating perverse incentives that undermine European industry. Tariffs therefore need to be assessed consistently across all stages of production and be incentive compatible, especially so as not to induce de-localisation of our industries. And tariffs must be balanced by consumer interests. There may be some industries where domestic producers have fallen too far behind already, and so making imports more expensive will only impose deadweight costs on the economy.
The report to the President of the European Commission will outline a European industrial policy that delivers on the core objectives of European citizens. This industrial policy will aim above all at raising productivity, preserving the competitiveness of our industries in the world and competition within Europe. It will aim at continuing the decarbonisation of our economy, in a way that leads to lower energy prices and greater energy security. It will aim at re-orienting our economy in a less stable world, in particular by developing a defence industrial capacity and trade policy that can match our geopolitical needs, while reducing geopolitical dependencies on countries that we can no longer rely on.
I said at the beginning of my remarks that maintaining high levels of social protection and redistribution is non-negotiable. In my conclusion, I want to restate that fighting social exclusion will be be fundamental not only for preserving the social equity values of our Union, but also to make our journey towards a more technological society successful.
The most significant source of income inequality is unemployment. Historically, macroeconomic policies, when well designed, have been the answer.
At the present time, and more generally, labour market policies together with a correct response to unfair competition from abroad are equally essential. And this industrial policy will also complement our social security system as the foundation for social inclusion in times of profound technological change. The decisions that these policies will require will be urgent because the pace of technological and climate change is accelerating and we are increasingly exposed to worsening international relations. These decisions will also be politically and financially significant. And they may also require a yet unseen degree of cooperation and coordination between the member states of the European Union. Today, this step appears daunting. Yet I am confident that we have the determination, the responsibility and the solidarity to take it – to defend our employment, our climate, our values of social equity and inclusion, and our independence.