Era nell’aria, ma quando arrivò sembrava ancora dirompente. Lo ha anticipato il procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan Cnn: dalla sua voce abbiamo sentito, dopo le pesanti accuse rivolte alla leadership di Hamas, le parole fame, obiettivi civili, sterminioassociato alla richiesta di arresto presentata per Benjamin Netanyahu e il suo ministro della Difesa Yoav Gallant.
Non esistono precedenti di capi di governo di Paesi che si definiscono democratici per i quali la giustizia internazionale ha chiesto l’arresto per crimini di tale gravità elevati a metodo di guerra.
Il procedimento si aggiunge a quelli in cui Israele si difende davanti alla Corte internazionale di giustizia, sempre con sede all’Aia, l’accusa – sostenuta dal Sudafrica e già ritenuta plausibile – riguarda invece la violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine del genocidio. Israele è uno dei firmatari di questa convenzione, mentre notoriamente – come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia – non ha firmato il Trattato di Roma che istituisce la Corte penale internazionale.
Naturalmente la richiesta del pubblico ministero è ora al vaglio del giudice. Ma dal punto di vista della rilevanza politica il fatto è sorprendente. Le reazioni rabbiose che arrivano da Tel Aviv dimostrano che il danno è stato fatto per il governo israeliano: non solo l’entità delle accuse, mirate a colpire i decisori finali, ma anche il ritrovarsi citati insieme ai leader terroristi di Hamas , che si scagliano ugualmente contro la presunta equazione tra aggressore e vittima.
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Eppure, qualunque sia la propria opinione sulla “parola G” (genocidio), il fatto che crimini di guerra siano stati e continuino a essere commessi a Gaza e nei territori occupati è evidente a chiunque abbia seguito gli eventi successivi al 7 ottobre. Il procuratore Khan non fa altro che difendere l’esistenza del caposaldo del diritto internazionale come strumento che interviene in dinamiche di guerra sempre più disumane. Questo passo è fondamentale per evitare di sancire la morte del diritto di fronte al “resto del mondo”.
Ricordiamo, qualche anno fa, le proteste dei capi di Stato africani, stanchi di essere gli unici bersagli della giustizia penale internazionale: con tanto di abbandono del Sudafrica dalla Corte penale internazionale, permettendo al jet di al-Bashir di prendere il volo e lasciare Pretoria.
La settimana scorsa, in un passaggio dai toni drammatici, lo stesso procuratore Khan ha risposto al rappresentante russo riguardo al pericolo di essere minacciati: si è detto ben consapevole delle costellazioni di potere che influenzano le organizzazioni internazionali, ma ha rassicurato sul fatto che, se messo sotto pressione, non si arrende, accettando sulle sue azioni solo il giudizio del giudice, di Dio e della storia.
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Se si guarda attentamente il provvedimento, non si fa menzione della tortura dei prigionieri palestinesi, né dell’occupazione. Eppure, quando, colpito da fatti così tragici e clamorosi, lo stesso tribunale che ha emesso mandati contro Assad e Putin include oggi un leader occidentale, gli stessi che ieri elogiavano la “giustizia” cominciano a parlare di “motivazioni politiche”. Adesso si dirà che tutto continuerà comunque, che Putin, destinatario di un mandato di cattura, gira il mondo con relativa disinvoltura e con un numero crescente di ammiratori. Che Israele, abituato ad assolversi davanti alle Nazioni Unite, continuerà come sempre e che vedremo ancora una volta bloccati e saccheggiati gli aiuti umanitari di cui c’è disperatamente bisogno a Gaza davanti agli occhi dei militari.
Qui però siamo fuori dalle Nazioni Unite in senso stretto e, data l’entità della sofferenza delle popolazioni, le tattiche finora utilizzate per influenzare il dibattito diplomatico e mediatico appaiono logore. L’Israele di Netanyahu a Washington è visto sempre più come l’alleato che crea problemi, e sempre meno come l’alleato che offre vantaggi. Molte cose si muovono in modo incerto, a cominciare dall’Iran che si trova ad affrontare una successione complessa. Il 7 ottobre, quando 14 anni di ‘dottrina Netanyahu’ andarono in pezzi di fronte agli efferati crimini dei miliziani di Hamas, la risposta fu trovata da Netanyahu nel repertorio biblico: ‘lo sterminio degli Amaleciti’, evocato nell’annunciare la guerra al Gaza e i suoi abitanti. Di fronte a questo sviluppo, troppi in Occidente hanno assunto un atteggiamento comprensivo, lasciandosi condurre da una leadership cieca su un crinale sempre più angusto. Ogni giorno diventa più chiaro che lo sterminio di cui parla oggi il pubblico ministero è una realtà e che anche le enormi sofferenze che si sono aggiunte non portano Israele da nessuna parte.
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Dopo la richiesta di un mandato d’arresto, diventa sempre più difficile per i governi occidentali guardare altrove, rifugiarsi in formule vuote e aggirare le riserve sempre più forti dei propri legali con tattiche dilatorie. Diventerà sempre più difficile difendere qualsiasi approvazione per le esportazioni di armi, o mettere a tacere le richieste di revisione dei pacchetti di collaborazione scientifica con implicazioni a duplice uso. Diventerà sempre più difficile per l’esecutivo bellico israeliano fingere solidarietà, con Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra messi sotto pressione dall’ultimatum di Benny Gantz. Forse l’ICTY è un segno del limite alla possibilità di continuare a ribaltare qualsiasi nozione pubblicamente difendibile di un ordine internazionale “basato su regole”. A meno che non si rovesci anche ogni parvenza di minima coerenza del sistema, fino a perdere ogni identificazione, soccombendo al doppio, triplo standard su cui da sempre disperatamente prospera ogni visione dispotica della politica.