di Bruno Chiavazzo
Il provincialismo della politica italiana è infinito. Girovagando per le città ci si imbatte in manifesti elettorali di uno squallore unico. Volti enormi di candidati dagli sguardi stralunati che promettono di cambiare l’Europa partendo dalla loro regione. “Abruzzo in Europa per il cambiamento”, “Calabria in Europa”, “Molise per il cambiamento”, e così via.
In realtà della politica italiana non se ne è fregato niente dell’Europa. Hanno nominato i vari trionfi alle elezioni italiane, giusto per dare loro un posto fuori dai confini nazionali, a patto che non rompessero la cabasisi, per citare Camilleri. Dalle elezioni della più piccola frazione di comune italiano a quelle dell’Europa continentale (450 milioni di abitanti), l’approccio di candidati e partiti è sempre lo stesso: accaparrarsi più voti possibili puntando a consolidare il potere locale e personale.
Geopolitica? L’equilibrio tra gli Stati? Le guerre? Tutte cose che affogano nelle meschine controversie nazionali. Non è un caso che solo in Italia i nomi dei cosiddetti “leader” siano inseriti nei simboli elettorali. Come se in Olanda, Portogallo o Polonia conoscessero le capacità taumaturgiche di Salvini, Tajani, Schlein o Conte. Un caravanserraglio di personaggi senza arte né ruolo che dovrebbero fronteggiare le mire espansionistiche di Putin o dei cinesi.
Tutto torna, convinto come sono che basti presentarsi per convincere l’elettore a recarsi alle urne. Ma li senti quando arrivano al telegiornale con le loro dichiarazioni di trenta secondi? Recitano la poesia che hanno imparato a memoria e che nessuno ascolta, ma che registrano per rivedere in “loop” nei loro cellulari e nei loro familiari per solleticare il loro ego.
Esisto quindi sono. Questa è la loro più grande aspirazione. Posano accanto al leader della giornata per dimostrare al villaggio che contano, hanno un impatto, sono importanti. Una cosa tragicomica, ma di cui non hanno il minimo senso di vergogna. L’importante è apparire, farsi vedere, farsi riconoscere dal fruttivendolo sotto casa o dal barista dei locali attorno a Montecitorio.
Si vedono frotte di giornalisti, o pseudo-giornalisti, armati di cellulari e macchine fotografiche fatte in casa che inseguono personaggi improbabili che pensano di essere Churchill o Eisenhower. Poi succede, come è successo al povero Fassino, che viene inseguito dagli addetti alla sicurezza aeroportuale perché si è messo in tasca un centinaio di euro di profumo. Come scrisse Osvaldo Soriano nel suo romanzo profetico: “Triste, solitario e definitivo”.